A Umberto Eco non piaceva lasciare le cose a metà. Quattro anni dopo essersi laureato in estetica nel 1954 con una tesi sul problema del bello in Tommaso d’Aquino, aveva cominciato a lavorare su un progetto di storia della bellezza mai nato, per via degli editori recalcitranti (costi elevati delle immagini). Così nel 2005 invitato alla Milanesiana da Elisabetta Sgarbi a parlare di un tema a scelta aveva scelto di riprendere il discorso interrotto. Intanto molta acqua era passata sotto i ponti della cultura e della filosofia, così l’ex medievalista era ripartito da una definizione del filosofo Dino Formaggio sull’arte (“L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”) degli anni Settanta per dire che “Il bello è tutto ciò che gliuomini hanno chiamato bello”. Una forma di relativismo? Certo, ma Eco oltre che un relativista è un pensatore attento alla storia, se non proprio uno storicista: sempre cum grano salis.
La sua prerogativa di pensatore e filosofo è sempre stata quella di soppesare bene le cose alla luce dello sviluppo del pensiero umano, dei costumi e degli usi che si modificano nel corso dei secoli. La conferenza, un vero e proprio saggio, ma come al solito godibile per la sua capacità di mobilitare l’alto – la filosofia – e il basso – la cultura di massa –, è molto godibile perché ricco di esempi tratti dal passato prossimo e anche remoto. Eco ama i paradossi e con questi riporta il tutto a un piano di realtà, a un bagno di realtà: se un viaggiatore venuto dallo spazio disponesse solo dei ritratti di donna dipinti da Picasso, che idea di bellezza si potrebbe formare? Con sottigliezza e arguzia si muove tra testi scritti e testi visivi, recupera temi letterari e artistici, ci mostra come l’idea di bellezza sia mutevole e cangiante, come segua i percorsi dell’antropologia pratica dei popoli e delle civiltà. Il giro di boa del suo discorso è all’altezza dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando vengono elaborati i modelli ideali su cui si è modellata la nostra stessa esperienza visiva: quadri, opere, chiese, lo stesso paesaggio del nostro paese.
Da Pacioli a Leonardo, e da questi a Le Corbusier, la conferenza diventa un aggiornato corso di ripasso della cultura degli ultimi sei secoli e mezzo. Con la sua capacità di creare digressioni dentro il discorso principale, senza mai perdere di vista il suo tema di fondo, e capace di tenere l’attenzione dei lettori, come alla Milanesiana degli ascoltatori, Eco ci fa attraversare Giotto e la filosofia medievale, fino ad approdare a Bosch visto in parallelo con Antonello da Messina: due idee diverse della bellezza quasi contemporanee. Il Medioevo resta tuttavia l’asse portante del suo discorso, perché tale è stato e rimane l’autore del Nome della rosa: un medievalista contemporaneo, che però non si dimentica di essere stato un frequentatore delle avanguardie e neoavanguardie, autore di Opera aperta.
Ecco Boccioni e Andy Warhol far capolino dalle sue pagine con il ritratot di Jackie Kennedy dipinto da quest’ultimo. Quelli che trovano la mostra di un autore d’avanguardia incomprensibile, non sono forse vestiti secondo i cannoni della moda, portano jeans e vestiti firmati, si truccano secondo i mutevoli modelli della bellezza proposta dai mass media? E allora perché “incomprensibile” l’happening di Charlotte Moorman, che esegue le musiche di Nam June Paiktenendo il puntale dello strumento nella bocca di uno sconosciuto a New York nel 1966? Il relativista si blocca di colpo e ferma la deriva che lui stesso ha messo in modo, per cercare il punto in cui le diverse concezioni convergono. La spiegazione di tutto sta in una frase che pronuncia, e scrive: “L’esperienza del bello presenta sempre un elemento di disinteresse”. Sono fasi nelle ultime pagine, ma non dirò come va a finire la conferenza. Dirò solo che forse più la bellezza, nonostante la tesi di laurea, o forse proprio per quello, a Eco interessa la bruttezza. Forse perché è un terreno meno frequentato, o forse perché le due cose – bellezza e bruttezza non sono affatto simmetriche, per quanto dipendenti l’una dall’altra.
Di certo fino al 1853, esordisce nella conferenza dell’anno dopo, il 2006, sempre alla Milanesiana, non c’era stato nessuno che avesse scritto una estetica del brutto, come fa Karl Rosenkranz. Tuttaviaanche il brutto, come il bello, è un concetto relativo e per spiegarlo cita addirittura Marx e un passo de Il capitale: il denaro rende i brutti belli. Non è forse vero? La chiave di volta di tutto risiede nella passione: il brutto è legato alla passione, tanto quanto il bello lo è al disinteresse e al distacco – ecco perché gli interessa il brutto. Bisogna però distinguere – di nuovo l’allievo di Tommaso d’Aquino – il brutto nell’arte e il brutto nella vita. Per spiegarsi, e sorprenderci, ci mostra un quadretto dipinto da Adolf Hitler. L’arte ha dato il suo meglio nella rappresentazione della bruttezza del diavolo. Trionfi della morte, giudizi universali, sono lì a dimostrarlo. Eco non si dimentica della sua passione per la letteratura popolare, che mescola all’arte classica, da bravo ex studente del Liceo classico. E il cristianesimo? In apparenza per questa religione che ha dominato l’Occidente “tutto è bello”: il cosmo, Dio, i santi, la Madonna, eccetera. Vero? Sì, ma per fortuna c’è stato Hegel che ci ha ricordato che con il cristianesimo il brutto sia entrato nella storia dell’arte. Ecco apparire il rimosso nella figura del mostro o mostruoso, che è una delle passioni del romanziere Eco, e non solo del filosofo e studioso di estetica. Lombroso, la fisiognomica, De Amicis, insomma il Positivismo ottocentesco e i suoi derivati, fino ad arrivare a Céline e alla propaganda fascista. Il percorso è quello delle montagne russe: dai vertici del pensiero, sempre raccontati in modo brillante e acuto, a Giorgio Almirante, senza dimentica e il cinema espressionista, e poi Sade, Balzac, Pinocchio e Mangiafuoco.
Alla fine c’è l’Avanguardia e il Kitsch, uno dei suoi cavalli di battaglia da Apocalittici e integratiin poi, Il discorso sul brutto non può che essere un discorso sul Kitsch contemporaneo. Nelle ultime pagine si cita la Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) e, ultimo colpo ad effetto, la Sentinella di Fredric Brown, racconto amato da Fruttero e Lucentini, e citato pure da Primo Levi in una sua antologia personale. Il brutto nella vita, che ne è? La risposta nelle ultime pagine. Buona lettura.
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