È il Covid o il caso Palamara che oggi stringe in una morsa la magistratura italiana? La pandemia ha portato i camion con le bare, anche la morte e la malattia dei giudici e di chi lavora con loro, i palazzi di giustizia blindati, i processi in ritardo, l’obbligo delle udienze da remoto. E certo, anche per le toghe, ha comportato di vivere un anno orribile. E questo lo riconoscono tutti i vertici della magistratura e in tutti i distretti durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, con parole più o meno drammatiche.
Ma la pandemia è un male per tutti, accomuna le toghe al resto degli italiani, avvicina perfino gli uni e gli altri, soprattutto se il magistrato si mostra comunque efficiente e comprensivo. Invece il “sistema Palamara” è stato, ed è tuttora, un virus esclusivamente endogeno. Riguarda i soli giudici, ne compromette l’immagine, mina l’istituzione, in una mescolanza tuttora di fatto indistinta di colpe e responsabilità. Al punto che un ex Csm come Luigi Riello, oggi procuratore generale a Napoli, usa la stessa espressione per il Covid e per Palamara, “nulla sarà più come prima”. E poi, rivolto al Csm, lancia un duro segnale: “Non credo che Palamara sia l'unica strega da bruciare e che tolto lui la magistratura sia di nuovo immacolata”.
L’Italia attraversa una confusa crisi politica, l’instabilità è dietro l’angolo, il Guardasigilli tuttora in carica Alfonso Bonafede parla a Lamezia Terme, nell’aula bunker costruita in cinque mesi per consentire il maxi processo Rinascita Scott del procuratore Nicola Gratteri. E della rapidità di quell’esecuzione gli dà atto il procuratore generale Beniamino Calabrese. Ma proprio per la sua qualità di ministro di un governo dimissionario Bonafede parla quasi da “tecnico”. Ne potrebbe, del resto, in questa sua veste precaria, lanciare moniti morali alla magistratura. Quelli di cui invece si avverte un drammatico bisogno e un’assoluta urgenza. Come dimostrano le prolusioni del vice presidente del Csm David Ermini e quelle dei consiglieri laici e togati che parlano in ogni cerimonia.
E sempre, con puntuale insistenza, torna il caso Palamara. Ovviamente sul filo della polemica. Così se Ermini – che tiene il suo intervento alla Corte di appello di Roma – definisce “non più sopportabile la degenerazione correntizia” e parla di “scorie ancora in circolo in questi giorni”, con un evidente riferimento al libro di Palamara (“Il sistema” scritto col direttore del Giornale Alessandro Sallusti), ecco che a stretto giro replica lo stesso Palamara: “Scorie? Ermini pensa che io sia diventato radioattivo solo dopo la sua nomina? Le correnti non le ho inventate io”.
La prescrizione? Ne parlano gli avvocati che contestano la legge di Bonafede. I processi troppo lenti? È un dato di fatto, come hanno dimostrato in Cassazione il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore Giovanni Salvi. E lo confermano tutti i vertici dei singoli distretti. Ma la pandemia ha scombussolato le carte. Ha costretto anche la giustizia italiana a cambiare registro. Ha aperto la via agli atti in formato digitale, sia civili che penali, ai processi da remoto, sicuramente quelli civili e, quando si può, quelli penali. Anche se il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria Luciano Egidio Maria Gerardis fa una considerazione da tenere ben presente: “La giustizia è un fatto umano, che si nutre anche delle intuizioni e, perché no, delle sensazioni che derivano da ogni forma di dialogo, anche quello nudo che passa attraverso lo sguardo e i gesti. Eliminare ciò e ridurre tutto a rapporti virtuali, significherebbe privare il momento giurisdizionale di una componente essenziale”. Sembra quasi di sentir parlare le Camere penali.
Certo, c’è tutto questo nel tradizionale momento di bilancio sullo stato della giustizia italiana. C’è la nuova procuratrice di Milano Francesca Nanni che parla degli “effetti sconvolgenti" della pandemia, ma riconosce il suo potere di “innestare un cambiamento anche nel sistema giustizia, di cui si possono già cogliere aspetti positivi”. C’è il procuratore generale di Roma Antonio Mura che considera il Covid “un inedito stress test”. E c’è il presidente della Corte d’Appello di Brescia Claudio Castelli che ai colleghi dice: "È tempo di essere coraggiosi e di ripensare la giustizia che vorremmo, una giustizia più vicino ai cittadini, più fruibile, più comprensibile, più equa. L'epidemia ha sconvolto tutti i nostri parametri e dovremmo cercare di trasformare la crisi in un’occasione”.
Ma dov’è l’anomalia? I tradizionali bilanci annuali in Cassazione e in periferia trasmettono più ottimismo e più ricette risolutorie sulla pandemia da centinaia di morti piuttosto che indicare una fine del caso Palamara. Un caso che già due anni fa ha rischiato di travolgere l’attuale Csm – salvato solo dall’autorevolezza del suo presidente Sergio Mattarella – e che adesso ne mette quotidianamente a dura prova ogni decisione. Basta ascoltare quello che Nino Di Matteo, l’ex pm di Palermo oggi consigliere togato, dice a Caltanissetta. Frasi come questa: “Troppi magistrati sono pervasi dal male oscuro del carrierismo e sono impegnati in una folle corsa al conseguimento di incarichi direttivi”. E poi quella più forte: “Il Csm sta ancora affrontando l'onda lunga dei fatti emersi dall'inchiesta della procura di Perugia, fatti e situazioni che ci devono indignare, ma non ci possono sorprendere. Non dobbiamo essere ipocriti. Essi rappresentano una fotografia nitida di una patologia che rischia di minare l'intero sistema della magistratura, una malattia che silentemente si era diffusa come un cancro con la prevalenza delle logiche di clientelismo e collateralismo con la politica”.
Un “cancro”, espressione che usò Berlusconi ormai più di dieci anni sollevando la protesta durissima di tutte le toghe. E adesso una toga usa proprio questa parola per definire i comportamenti devianti. Tutti i consiglieri del Csm, parlando ai colleghi, si fanno garanti di un futuro senza correnti, che passa obbligatoriamente per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Ma i tempi sono troppo lunghi. La magistratura nel frattempo resta in mezzo al guado. Per riportarla alla realtà non basta neppure il disperato appello dei giudici onorari – categoria precaria e bistrattata – che con una rosa in pugno, a voler ricordare lo storico sciopero dei lavoratori dell'industria tessile svoltosi nel 1912 a Lawrence negli Usa, manifestano sotto il palazzo di giustizia di Milano. L’Assogot, l’associazione dei giudici onorari di tribunale, chiede di ottenere “il diritto delle ferie, della maternità, degli infortuni, della malattia, del trasferimento, del congedo familiare, dei buoni pasto o della gratifica natalizia” , tutti “diritti ancora sconosciuti e negati". L’unico procuratore generale che spende una parola per questi 5mila “fantasmi” è quello di Torino, Francesco Saluzzo. Eh già, perché gli altri sono tutti presi dal caso Palamara. Che in share batte decisamente perfino il Covid.
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