VENEZIA. Il 29 gennaio 1996, poco prima delle 21, il cielo limpido di Venezia all'improvviso s'infiamma. Dal Teatro La Fenice divampano mostruose lingue di fuoco che, agitate da un vento furioso, minacciano l'incolumità dell'intera città. La luce salta in diversi sestieri, mentre un rogo di proporzioni mai viste si divora il cuore del tempio della musica lirica.
Nessuno sa ancora che si tratta di un incendio doloso. Non ci sono ancora i telefonini e tantomeno i social e così i veneziani accorrono a centinaia per assistere a un rogo che sembra fuori controllo. "Non bruciava una struttura, ma un organismo vivo" ricorda la violinista della Fenice Daniela Santi "Sono corsa subito, mettendomi un cappotto sopra al pigiama. Era come se il Teatro fosse una persona viva che aveva bisogno di aiuto e ci chiamava a sé mentre se ne stava andando". Il sindaco Massimo Cacciari interrompe un consiglio comunale e si precipita con l'intera amministrazione. Le cronache dell'epoca lo descrivono avvolto nel suo loden con la disperazione negli occhi, mentre balbetta con gli occhi lucidi "Il Teatro è andato" e si coordina con il comandante dei Vigili del Fuoco Alfio Pini.
I pompieri fanno evacuare l'area, ma non esiste ancora la rete antincendio e, per lavori in corso, non c'è acqua nemmeno nei canali che circondano il Teatro. La città rischia davvero di essere ingoiata dal fuoco. Le urla di chi si vede le fiamme davanti alle finestre rompono un silenzio surreale. Chi c'è non ha parole, ma solo lacrime. "Quando ho saputo che la Fenice stava bruciando non ci ho pensato un attimo a intervenire" racconta Roberto Tentellini, elicotterista dei vigili del fuoco, oggi 76 anni "Ho chiamato l'aeroporto militare di Tessera e chiesto ai colleghi pompieri di preparare l'elicottero Drago 35 con la sacca che si usa per spegnere gli incendi nei boschi, quella che porta mille litri di acqua. Sapevo che era vietato sorvolare Venezia sotto i mille metri e che nessuno prima di quel momento lo aveva fatto, ma se volevamo spegnere le fiamme e scongiurare il rischio che raggiungessero i palazzi limitrofi, quelle norme dovevano essere trasgredite. E così ho fatto".
Tentellini e i colleghi Paolo Tiberi e Lucio Donà salgono a bordo del mezzo e volano tra le fiamme e i tizzoni ardenti. Chi c'era quella notte ricorda che l'elicottero sembrava un moscerino che cercava di sconfiggere un gigante. "Quando arriviamo cerchiamo di capire dove poterci rifornire di acqua e individuiamo l'unico punto possibile nel Bacino di San Marco" continua il pompiere, oggi in pensione. "Il Teatro sembrava un braciere rovente (…) Fino all'alba continuiamo a gettare acqua, volando a trenta metri di altezza sopra i tetti e facendo 220 giri con un intervallo di circa due minuti tra una gettata e l'altra. Poi, dopo cinque ore, con le prime luci del sole, realizziamo che la città è fuori pericolo e torniamo, completamente ricoperti di fuliggine".
"La cenere riempiva l'aria e sembrava di camminare sotto una nevicata nera" racconta il musicologo Veniero Rizzardi. "Quando mi hanno detto che stava bruciando La Fenice ho sentito lo stomaco che mi si chiudeva. Era una notizia scioccante che non riuscivo a controllare. Mi sono diretto verso il Teatro e, dopo poco, ho notato brandelli di stoffa volteggiare nell'aria. Forse erano tendaggi o frammenti di decorazioni, ma il cielo limpido di quella sera era stato ricoperto da un'atmosfera spettrale". Le fiamme sembrano non finire mai, soprattutto dopo il crollo del tetto: "Un boato da brivido risuonò nell'intera città e dal Teatro fuoriuscì una colonna di fuoco altissima, come quella di un vulcano in piena eruzione" ricorda la regista Alessandra Galletta "In quel momento mi è quasi mancato il fiato perché ho realizzato che la Fenice non ci sarebbe più stata e che non si sarebbe più potuta salvare". Il giorno dopo l'impresa memorabile dei Vigili del Fuoco, e per tanti altri giorni ancora, l'odore acre del fumo rimane nella città e, come descrive la poetessa Anna Toscano "il cielo sembra un foglio di carta marmorizzata, costellato di nuvole cineree".
Le testimonianze e gli estratti delle interviste a Felice Casson, giudice istruttore e pubblico ministero per 25 anni e senatore per tre legislature, e al già ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa, sono tratte da La Fenice, 29 gennaio 1996. La notte di fuoco: storie, interviste e articoli, pubblicato da Editoriale Programma e disponibile nelle librerie Giunti e Feltrinelli. Il libro ricostruisce il caso Fenice, a partire da quel rogo che scioccò il mondo intero e che segnò un prima e un dopo per la città. I testimoni sono dodici, come le voci del coro della tragedia greca, e incarnano lo spirito della polis. Le interviste raccontano le indagini, come si uscì dal groviglio di contenziosi e com'è oggi la Fenice. Segue una raccolta di articoli de La Nuova Venezia e una galleria di immagini del fotografo Gianfranco Tagliapietra. Nelle pagine emerge la solidarietà che si fece sentire subito a livello nazionale e internazionale, inclusa la raccolta fondi che La Repubblica promosse insieme a La Nuova Venezia. Oggi, a 25 anni dal tragico incendio, per fortuna senza morti e senza feriti, la Banda del Corpo Nazionale del Vigili del Fuoco eseguirà un concerto in streaming nel Teatro La Fenice (dalle 16.30 sul sito www.teatrolafenice.org).
Per anni della Fenice non rimane che lo stesso cratere provocato dall’incendio doloso, un buco vuoto e freddo nel cuore di Venezia. Il giorno dopo l’incendio il sindaco Massimo Cacciari annuncia che verrà ricostruita «dov’era e com’era», pronunciando le stesse parole utilizzate in occasione della ricostruzione del campanile di San Marco, crollato il 14 luglio 1902 e ricostruito un anno dopo. La scelta era stata presa per riconsegnare al più preso il Teatro alla città. Il dibattito sarà accesissimo e vedrà schierarsi le più grandi archistar dell’epoca chi a favore di una totale demolizione come Paolo Portoghesi («è veramente un esempio di bruttezza») e chi per la ricostruzione «tale e equale» come Aldo Rossi, Gae Aulenti e Vittorio Gregotti.
Alla fine prevarrà il «dov’era e com’era», ma come racconta lo scultore Guerrino Lovato, che realizzò i prototipi in creta dell’ornato e di alcune sculture come le nereidi, «per la Fenice non si può parlare di restauro perché non esistevano prototipi e nemmeno di copia perché non c’erano originali, quindi l’indirizzo era quello di seguire il concetto di rievocazione». Per ricostruirla dov’era e com’era il film Senso di Luchino Visconti, tra i primi a colori, fu fondamentale.
Il caso Fenice fu caratterizzato da molti colpi di scena e dall'uso della tecnologia, come la novità dell'utilizzo delle celle telefoniche per geolocalizzare le persone. A quel tempo erano pochissimi i cellulari e questo permise al pm Felice Casson di smascherare gli alibi dei due elettricisti che poi vennero condannati (Enrico Carella e Massimiliano Marchetti all'epoca di 27 e 25 anni). Alla base del gesto c'era la preoccupazione di dover pagare una penale di circa 15 milioni di lire per il ritardo dei lavori che i due stavano svolgendo nel Teatro. Già indebitati fino al collo, gli elettricisti credevano di poter guadagnare tempo provocando quello che poteva sembrare un fatale incidente. Il loro piano fece invece bruciare la Fenice come un fiammifero. "L'uso della tecnologia segnò una novità nelle indagini" spiega Casson "Utilizzammo per esempio alcune cimici che, per gli anni Novanta, erano davvero innovative.
È grazie a una di queste cimici, piazzata nella Fiat 126 di Marchetti, che intercettammo la famosa frase per quattro schei el gà brusà ea Fenice (in dialetto veneziano: per quattro soldi ha bruciato la Fenice, ndr), pronunciata dalla sua fidanzata (e riferita al cugino Carella, ndr)". In parallelo al processo per incendio doloso, il pm Casson procedette con l'accusa di concorso colposo rivolta a otto imputati (incluso l'allora sindaco Massimo Cacciari nella veste di presidente dell'ente lirico) che verranno tutti assolti. La loro colpa sarebbe stata quella di non aver adottato adeguate misure di sicurezza nel Teatro, ma l'impianto accusatorio non venne accolto.
Il processo (37 faldoni per un totale di 44 mila pagine) iniziò nel settembre del 1999 e si concluse nel marzo 2001 dopo 44 udienze. Seguirà il ricorso in appello e nel 2003 in Cassazione con la conferma della condanna dei due elettricisti. Le indagini portarono a ipotizzare che i due avessero agito con un possibile complice. "Indagammo il padre Renato Carella perché aveva collegamenti con grosse ditte (…)" prosegue Casson "La sua morte improvvisa tagliò ogni possibilità di approfondimento, visto che i due principali accusati negarono sempre ogni forma di collaborazione (…)".
Fu solo nel 2000, quando il già ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa divenne sindaco di Venezia, che la macchina degli appalti, inceppata da ricorsi e contenziosi da quattro anni, riprese a funzionare. In sintesi: il primo concorso viene vinto da Impregilo con il progetto della già celebre Gae Aulenti, seguita da l'A.T.I. (associazione temporanea di imprese) Holzmann-Romagnoli che ottiene un punteggio più alto per l'idea del pluripremiato Aldo Rossi, ma meno per l'intera proposta. La Impregilo inizia i lavori, ma viene poi esclusa dalla Holzmann-Romagnoli che fa ricorso.
L'impresa italo-tedesca subentra e si rileva inadempiente e non sarà semplice per Costa liberarsene per indire l'ultimo bando per la ricostruzione vinto nel 2001 dalla veneziana Sacaim che realizzerà il progetto di Aldo Rossi in 630 giorni. "Quando il committente pubblico si comporta con decisione e sa recitare il suo ruolo facendosi rispettare e quando l'impresa fa l'impresa pensando a lavorare, le opere si fanno" dichiara Costa. "E quando le norme si sanno applicare, non c'è bisogno di deroghe speciali. Accade poche volte in Italia".
Il 14 dicembre 2003 la Fenice, dopo sette anni, riprende il volo. Si festeggia per una settimana in pompa magna. "È stata una vera festa per tutta la città e per tutto il mondo. Mia moglie Maura, già violinista della Fenice, mi aiutò a organizzare il cartellone e con Franca Ciampi decidemmo il dress code. Invitammo le più grandi orchestre del mondo (…)" ricorda Costa "Il concerto inaugurale spettava all'orchestra della Scala e al maestro Riccardo Muti perché, dopo l'incendio, fu il primo a invitare la Fenice a suonare a Milano e il sindaco Massimo Cacciari gli promise che sarebbe stato lui a riaprire con un concerto la Fenice".
Da allora, il mitico uccello che rinasce dalle proprie ceneri, ha dovuto superare l'acqua alta eccezionale del 12 dicembre 2019 e oggi la pandemia, in attesa di rivedere il pubblico. "Dalla mia esperienza il teatro d'opera è il luogo che custodisce il dna di una città perché registra la storia e accoglie le più svariate persone" spiega l'attuale sovrintendente Fortunato Ortombina. "Ed è proprio questo desiderio di partecipare insieme a un concerto o a un'opera che continua ad attraversare le generazioni ed è sempre vivo".
Non è "solo" un mal di testa. Emicrania: regole, sintomi e prevenzione di uno dei…
Infezioni in gravidanza, ogni anno un neonato su 150 colpito da citomegalovirus, circa 300 nascono…
Morbillo, quasi raddoppiati i casi in un mese: cosa sta succedendo e cosa fare Corriere…
Sonno e intestino: così il microbiota intestinale influenza il riposo (e viceversa). Come intervenire Corriere…
DELFINATO, È IL TADEJ POGAČAR SHOW. TAPPA E MAGLIA PER LO SLOVENO TuttobiciwebVisualizza la copertura…
LIVE Judo, Mondiali 2025 in DIRETTA: ASSUNTA SCUTTO, ORO DA DOMINATRICE! OA SportMondiali Judo: Assunta…