L'ambulanza parcheggiata davanti all'hotel Palatino. I sanitari bardati di tutto punto, da astronauti. I primi video dell'intervento del 118 condivisi migliaia di volte social, a tarda sera. Così, un anno fa, il coronavirus muoveva i suoi primi passi a Roma. Un esordio da incubo partito con la telefonata di una turista cinese alla reception dell'albergo di via Cavour: "Mio marito ha la febbre". Così, con una manciata di parole pronunciate in un inglese stentato e tra i singhiozzi, il 29 gennaio 2020 è entrato nella storia della Città Eterna. Quel giorno una coppia di Wuhan, provincia simbolo della pandemia, sbarcava nella capitale ignara di aver portato con sé il Covid.
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Un ospite sgradito, disinnescato dallo Spallanzani. A seguire marito e moglie, 67 e 66 anni, è stata l'unità di Malattie infettive ad alta intesità di cure dell'istituto. Ed è il suo direttore, Emanuele Nicastri a ricordare quei giorni: "Abbiamo accolto la coppia e l'abbiamo isolata. Poi il test ci ha confermato quello che sospettavamo: coronavirus. Il primo problema fu come comunicarlo ai pazienti". Una piccola impresa: "Erano di un livello culturale alto, ma parlavano poco inglese. Furono decisivi WhatsApp e le videocall con la figlia, che lavora negli Stati Uniti. La reazione alla diagnosi? Per loro fu una sorpresa". E non delle migliori.
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Nicastri ricorda ogni passaggio, ogni piccolo aggravamento o miglioramento del quadro clinico dei due cinesi. Compresa la notte tra il 4 e il 5 febbraio, 12 ore terribili: "Prima finì intubato lui e poi lei. Il peggiormento fu sensibile, inaspettato. E fu un'altra videochiamata ad aiutarci a uscire fuori da quel caso". Ecco il ponte 2.0 allestito dall'ambasciata cinese con i pneumologi di Wuhan: "Ci si poteva attendere reticenza da parte loro. Invece ci spiegarono subito come affrontare la situazione. Ossigeno e cortisone da subito, anche se l'Oms lo riteneva dannoso. Poi il Remdesivir, un antivirale. Sono le armi che utilizziamo ancora oggi".
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Con i primi casi di coronavirus si sono rivelate particolarmente efficaci: "Il 95% dei pazienti Covid non presenta sintomi così gravi. A loro poteva andare malissimo, ma ne sono usciti sulle loro gambe", ricorda ancora Nicastri. Poi un flash: "La figlia, certo. Quando venne a sapere che la madre e il padre erano in rianimazione prese il primo volo per Fiumicino. La andammo a prendere noi in aeroporto. Dovevamo accorciare i tempi, non eravamo certi di cosa potesse accadere ai genitori". Ore di attesa e di ansia, fino alla notizia: "Prima lui, poi lei. Guariti e finalmente capaci di comunicare con noi, grazie all'aiuto dei ragazzi del consorzio Confucio della Sapienza. Ricordo la prima boccata di aria fresca del nostro paziente cinese, con tutta la nostra squadra. È stato un momento emozionante".
Tanto quanto quello in cui ha potuto rivedere la moglie: "Lei era ancora intubata – racconta Nicastri – e lui si è commosso. La nostra politica è stata sempre quella di separare le famiglia. Se peggiora uno, lo fa anche l'altro di solito. Certe notizie sono insostenibili. Loro, pur stando lontani, peggiorarono assieme. Come se ci fosse una connessione psicologica". Telepatica.
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E oggi? A distanza di un anno il virus è una realtà, è entrato nel quotidiano. "La paura è stata nostra compagna per tutti questi mesi. Ma ora c'è il vaccino. È difficile far capire a chi non lavora in ospedale il senso di sicurezza che può fare. È il nostro vestito di Superman. Da noi non esistono no-vax, ma solo medici, infermieri, biologi, ausiliari e amministrativi forgiati dalle precedenti pandemie, dall'Ebola fino alla Chikungunya. Eravamo pronti al coronavirus, come team. E i due coniugi cinesi sono stati la nostra palestra".
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