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‘Piazza degli eroi’, il “testamento” di Bernhard sulle macerie del nazismo

Abbiamo atteso 33 anni perché s'allestisse in Italia Piazza degli Eroi (Heldenplatz) di Thomas Bernhard, testo-testamento del 1988 cui seguì la fine della sua vita tesa (decretò lui) a "irritare e disturbare". Ma ancora oggi è tempestiva e oltraggiosa, e colma di lancinante bellezza, la messinscena cui grazie al regista Roberto Andò e al suo Stabile di Napoli abbiamo assistito su Rai5, per un debutto momentaneamente in video, con riprese di Barbara Napolitano. Questo dramma denunciava già decenni fa il crescere dei fascismi mascherati da sovranismi e populismi, i rigurgiti antisemiti, e le ottusità partitiche, rendendone portavoce una storia di famiglia ebrea viennese in tre spazi e ritratti postumi di un suicidio. Tutto è un richiamo alla persona che, tornata in patria coi suoi dopo un esilio in Gran Bretagna per le leggi razziali, ha finito per togliersi la vita gettandosi dalla finestra dell'abitazione affacciata sulla piazza in cui cinquant'anni prima la folla aveva acclamato Hitler per l'annessione dell'Austria.

Lo spettacolo di Andò s'accosta man mano allo scandalo della morte e alla tragedia dei sopravvissuti con umanità di attori e di immagini alla Bergman e con conflitti epocali tipici di Pinter, Bond o Koltès. Intimissimo, in apertura, è lo squarcio domestico: della governante narratrice (Imma Villa) che forse è stata la "favorita" dello scomparso Josef, di cui esalta il pensiero, l'intolleranza, il fanatismo della precisione, l'arte dello stirare e il culto delle scarpe inglesi con cui la regia crea in proscenio una mostra struggente, e della cameriera (Valeria Luchetti) che si chiama Herta come la madre di Bernhard, ed è dispensatrice di commossa mitezza. Poi, in un esterno di panche da parco (e di alberi in aria: che colpo d'occhio), introdotto da due figlie del suicida ovvero la razionale Anna (Silvia Ajelli) che fa puntute affermazioni, e l'introversa Olga (Francesca Cutolo) che è stata oltraggiata per strada in quanto ebrea, ecco che fa il suo ingresso in scena un corrispettivo italiano del mitico Minetti amato dall'autore, il carismatico Renato Carpentieri, depositario di senso, etica, brusca fascinazione.

Renato Carpentieri: "È il sarcasmo che ci tiene in vita"

di

Anna Bandettini


Carpentieri incarna il filosofo Robert, fratello del matematico morto, uno che se ne sta in campagna, che rifiuta di protestare per un'insidia al giardino di proprietà (con tanti saluti a Cechov), che non s'è stupito della fine di Josef conoscendone la predisposizione (ce ne fu anche nel Bernhard ragazzo) e perché suicida era finito un altro loro fratello. Lui sa che i viennesi odiano gli ebrei, e con toni di una pacatezza micidiale si dice contro tutti, schifato dai rivoltanti traffici d'un Paese ottuso alla ricerca d'un regista che porti nel baratro. E il suo accenno al palcoscenico europeo, se non è merito della traduzione di Roberto Menin, è da ascrivere, riconoscenti, a Andò. Il culmine è nell'ultimo convivio che accoglie – oltre a un altro fratello giovane, e a estimatori, e a un Carpentieri talvolta di toccante voce fuori campo – la vedova del suicida (Betti Pedrazzi) il cui nome Hedwig rimanda alla "persona della vita" di Bernhard, qui una donna che ha alle spalle la clinica psichiatrica Steinhof, afflitta sempre dagli echi hitleriani di quella piazza, che (lei soltanto, in a parte luminosi) percepisce ancora, fino a crollarne. A tale vertiginoso capolavoro contribuiscono il ruolo (non in copione) del fantasma pianista Vincenzo Pasquariello con Beethoven e Chopin, l'impianto di Gianni Carluccio, i costumi di Daniela Cernigliaro, il suono di Westkemper. Non perdetelo. È una coproduzione, circolerà.

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