Pasta e finanza. È quello che, alla vigilia delle festività, prevedeva il menu pandemico, almeno a giudicare dalle pubblicità in tv. Trenta secondi di Barilla, Rummo, la Molisana. Altri trenta di Fineco, che nello spot punta a valorizzare l’elemento umano di una banca notoriamente molto tecnologica, e poi di Moneyfarm, dove il padre canuto ma scattante sbeffeggia il figlio che ancora si rivolge ai promotori finanziari classici invece di fare come lui e gestire i suoi soldi dalla piattaforma fintech.
Se, tra un fusillo e una calamarata, gli Exchange Traded Funds (Etf) irrompono nelle cene degli italiani vuol dire che qualcosa è cambiato nelle abitudini di uno dei Paesi finanziariamente più conservatori al mondo, i cui unici record riguardano i risparmi privati e l’utilizzo del contante. Stiamo passando dai polverosi Bot ai perturbanti bot, intesi come algoritmi che comprano e vendono azioni? È merito/colpa del Covid? E, se sì, torneremo ai buoni ordinari del Tesoro non appena i vaccini faranno effetto o quella che ha fatto debuttare la Borsa nel nostro prime time è una strada senza ritorno?
Prima di iniziare ho chiesto qualche pezza d’appoggio a Salvatore Gaziano e a Roberta Rossi di SoldiExpert, piccola società di consulenza finanziaria con vent’anni e circa 400 clienti alle spalle. Stando a un censimento di Assosim, tra gennaio e aprile scorsi gli scambi azionari sono saliti del 55 per cento, toccando il 166 sugli Etf. E se, in questa febbrile attività borsistica, ci concentriamo sul sottoinsieme retail, ovvero gli investitori non professionali, io e voi per intenderci, questo è cresciuto di un quarto rispetto all’anno prima (da 73 a 91 miliardi di euro).
Ad adiuvandum, ecco poi una slide di un seminario recente della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane titolato Boom di acquisti azionari durante il lockdown, con punte sui 5.000 nuovi investitori nelle settimane più crude della prima ondata. I broker fai-da-te sono ormai una legione: 15 mila day trader, che comprano e vendono in giornata; 200 mila persone che operano almeno una volta alla settimana; 2,2 milioni di intestatari di un conto titoli, il prerequisito per negoziare alcunché. La realtà è sempre più complessa delle nostre semplificatorie intuizioni – svago su Netflix, shopping su Amazon, lavoro su Zoom e nelle pause approfitti per investire online – ma un aumento c’è stato.
Non ha difficoltà ad accettare la correlazione Alessandro Foti, amministratore delegato di Fineco, che lavora dalla sua casa al mare: «Alcuni trend hanno preparato la transizione. Gli italiani sono ottimi risparmiatori e pessimi investitori e gli 1,7 trilioni di euro sui loro conti lo dimostrano. Finché stai comodo, puoi permetterti di tenere i soldi improduttivi, oggi però sempre meno. Per non dire che i tassi negativi e la liquidità messa in circolo dalla Bce, riflazionando l’economia, rimpiccioliranno i depositi in contanti. Così, di colpo, molti son stati costretti a darsi una mossa». Per lui, lasciare denaro sul conto è un delitto: «L’Istat sottostima l’inflazione. Soprattutto per i più benestanti che non rinunciano a comprare a 650 euro gli stessi sci che l’anno prima costavano il 10 per cento in meno. E il mondo, nel suo complesso, non può che crescere. Basta guardare l’andamento del MSCI World, un indice rappresentativo di tutte le borse: con la crisi del 2000 ha perso il 50 per cento, con quella del 2008 il 40 ma, negli ultimi vent’anni, ha comunque guadagnato il 600 per cento. Se di due fratelli uno ci avesse messo 100 euro e l’altro li avesse lasciati sul conto, il primo oggi ne avrebbe 700, il secondo 66. Tra i due chi vorreste essere?».
Fineco cresce robustamente da anni («Le sue azioni si comportano più come le tecnologiche che come le bancarie» mi dice un analista), ma non è mai cresciuta come nel 2020. Tuttavia gli animal spirits di Foti lo fanno concentrare sulla metà ancora vuota del bicchiere: «Dei nostri 1,3 milioni di clienti, mezzo milione ha solo il conto corrente, 800 mila il conto titoli e, di questi, 300 mila investono attivamente. Però la ricchezza finanziaria italiana è stimata in 4,5 trilioni di euro, di cui circa un trilione sono le azioni delle proprie società detenute dagli imprenditori, altri 800 miliardi rappresentano fondi pensione e Tfr mentre 2,7 trilioni restano inerti. Se gli italiani investendoli, ne ricavassero un rendimento anche solo dell’1 per cento, si tratterebbe di 27 miliardi, che equivalgono a una bella finanziaria».
A competere con loro nella preziosa fascia post tg c’è spessissimo Moneyfarm, una società di gestione del portafoglio con metà dell’anzianità (dieci anni contro venti) e una frazione dei clienti (circa 50 mila) ma che si moltiplica a ritmi coniglieschi. Nel primo semestre 2020 ha gestito il 53 per cento in più dell’anno prima (1,2 miliardi di euro) e, nonostante il panico di quei mesi, invece di darsela a gambe i suoi clienti hanno rilanciato, più che raddoppiando i top up, gli aumenti delle somme investite. Giovanni Daprà, il trentacinquenne co-fondatore e amministratore delegato, risponde via Teams da Londra: «Gli italiani hanno infine scoperto la Borsa? Non necessariamente: i nostri clienti vogliono delegare a noi le scelte. Di certo, però, la crisi li ha fatti uscire dall’apatia di parcheggiare i soldi sul conto».
Sin qui commissioni e costi di gestione non trascurabili avevano riservato il risparmio gestito alla classe medio-alta. Moneyfarm, seguendo la strada aperta da Vanguard e Schwab in America, li ha abbattuti puntando sugli indici passivi, quelli che simulano l’andamento di un mercato e sono negoziati in automatico dall’algoritmo. Si può scegliere tra 14 portafogli diversi, a seconda della propensione al rischio e su chi investe meno di 20 mila euro la piattaforma si tiene l’1 per cento. Anche rispetto alla concorrenza di Azimuth e Mediolanum ci sono un paio di cose di cui vanno particolarmente fieri: «La trasparenza dei costi, contabilizzati ogni mese, e il fatto di puntare esclusivamente sulle scelte dei nostri asset manager, senza farci influenzare da altri incentivi commerciali. I nostri clienti hanno, in media, 47 anni (contro i 37 britannici) e investono dal minimo di 5.000 ai due milioni di euro». Si fa tutto dalla app, ma volendo c’è l’assistenza di un consulente telefonico.
Lo provoco dicendo che con loro, in un paio di anni, ho guadagnato poco più del 2 per cento, mentre comprando direttamente delle Zoom su Fineco ho sfiorato il 300. Non ci casca: «La concorrenza per noi non sono mai le singole azioni. Sono un rischio idiosincratico che non corriamo, o che limitiamo entro il 10 per cento dei nostri panieri. Il suo fortunato exploit non è sostenibile. I nostri risultati sono in linea con gli obiettivi che dichiariamo prima e dipendono anche dal rapporto che instauriamo col cliente. Se uno avesse venduto tutto a marzo, nel bel mezzo del crollo, si sarebbe fatto molto male. Ma siamo riusciti a spiegare, con i video e la consulenza telefonica, perché era sbagliato farlo e la maggior parte ci ha ascoltato». La frase più celebre di Warren Buffett, il numero uno degli investitori, è nobody beats the market.
A dispetto del fatto che certi alberi (le azioni) possano morire, la foresta (il mercato) cresce. Daprà è d’accordo: dice che io ho vinto una scommessa, mentre loro investono ed è tutta un’altra cosa. Poi mi spedisce una fitta letteratura su come i mercati siano giochi-a-somma-zero per cui il guadagno di qualcuno è la perdita di un altro e, storicamente, l’altro è il piccolo investitore. Ovvero quella banda di principianti che, nell’annus horribilis dell’economia reale, ha avuto una scandalosa fortuna puntando su Wall Street. Molti di loro, in America, l’hanno fatto usando Robinhood. L’app preferita dai millennials (l’80 per cento di chi la usa ha tra 20 e 40 anni) è decollata durante la pandemia che le ha portato tre milioni di nuovi clienti sui 13 totali. I suoi punti di forza sono la possibilità di comprare azioni frazionarie, per esempio una piccola quota di una singola azione di Amazon che ormai vale oltre tremila dollari. E le commissioni azzerate grazie alla circostanza che, una volta che l’investitore decide cosa comprare, la piattaforma indirizza l’ordine su un exchange anziché un altro, il quale poi si sdebita restituendo una minuscola quota a Robinhood.
«Un modello market maker che in Europa non abbiamo e che rende impossibile, almeno a quelle condizioni, il suo sbarco in Italia» spiega Foti. Daprà aggiunge che altri soldi Robinhood li fa vendendo dati a terzi, il che è proibito da noi, e ricorda i tanti che si sono fatti molto male usandola. Non sono preoccupati, o almeno fingono molto bene. Alle nostre latitudini ciò che più si avvicina a quella versione low cost e gamificata sono varie piattaforme un po’ borderline, tipicamente accasate in mercati europei dai controlli più laschi tipo Grecia o Cipro, come quella Fortissio con cui si è rapidamente rovinato l’incauto fidanzato del portavoce del premier Rocco Casalino. Le loro pubblicità impestano le pagine web (tipico claim: «Fatti un secondo stipendio investendo 200 euro»), le caselle email, come una volta solo le promesse sulle dimensioni del pene, e ormai anche la messaggistica dei cellulari. Tutti indizi da cui non è irragionevole desumere che il loro utilizzo, se non già vasto, si allargherà.
Sul Venerdì del 29 gennaio 2021
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