La commemorazione della nascita del Pci è motivo di riflessione per la storia e il destino della sinistra italiana. In questo contesto vorrei sottolineare un aspetto non secondario, ma poco studiato, rispetto al percorso politico del partito comunista. Mi riferisco al rapporto con il mondo contadino sulla cui complessità si innestavano valori e sentimenti sbrigativamente liquidati come retaggio di un passato oscurantista.
Forse in questo c’è un pezzo della mia personale avventura poiché la mia famiglia paterna era orgogliosamente comunista in un territorio, come quello della provincia cuneese, caratterizzato dalla preponderante realtà conservatrice di piccoli coltivatori. Ma proprio in quel congresso di Livorno i delegati socialisti del cuneese e dell’astigiano erano in maggioranza nella mozione comunista. I lavori del congresso per un giorno furono presieduti dall’avvocato Riccardo Roberto di Alba, che apparteneva alla componente comunista che operava attivamente nelle campagne del cuneese.
Il deputato Roberto si dedicò a questa causa di sensibilizzazione percorrendo il territorio a piedi, poi in bici, infine in moto per organizzare i piccoli proprietari. Visse fino in fondo la difficoltà di costruire un rapporto con le masse contadine in una situazione così inumana da divenire un topos letterario nella poesia di Cesare Pavese: «Qui ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani».
Negli anni Settanta si conservava ancora la memoria di questo attivismo nelle Langhe e nel Monferrato astigiano. Col tempo però, la centralità operaia, la scelta di riscatto del mondo bracciantile, la costruzione di un forte cooperativismo agricolo hanno prevalso all’interno del Pci, consegnando il riscatto della piccola proprietà contadina alla Democrazia cristiana e alla potente organizzazione di Ivanoe Bonomi.
La sinistra non seppe mettere in campo una strategia che soccorresse il proprietario di pochi ettari, perennemente esposto al rischio della rovina economica. Perché, per dirla con Agostino Braida, il ragazzo servitore protagonista de La Malora, «non ci voleva più che un soffio a perdere la terra e la casa e restare solo con le nostre braccia al mondo».
Non è un caso che a dar voce a questa consistente parte del mondo contadino sia stato un personaggio come Nuto Revelli, che non apparteneva al Pci e criticava la politica democristiana. Nuto rappresentava quel mondo gobettiano e azionista sensibile nel comprendere i difficili passaggi della modernità. Chiunque valuti il lavoro di Nuto Revelli e dei suoi libri solo come un esercizio di metodologia antropologica non ha compreso che quel lavoro poneva le basi per comprendere il nostro futuro politico e sociale.
Ricordo come attorno a Nuto si ritrovavano periodicamente in Langa figure come Alessandro Galante Garrone, Primo Levi, Norberto Bobbio, Vittorio Foa e Bartolo Mascarello, quest’ultimo produttore di Barolo, erede diretto di quel socialismo radicale di inizio secolo in terra di Langa.
Ancor più sottovalutata e ancor più sconosciuta è l’opera straordinaria di Emilio Sereni. Che, invece, dall’interno del Pci ha sviluppato riflessioni fondamentali per comprendere il mondo rurale italiano. Un contributo politico e storiografico ispirato dagli Annali francesi e dalla straordinaria conoscenza agronomica. Oggi, che la tematica della difesa del suolo è all’ordine del giorno, il libro di Sereni Storia del paesaggio agrario italiano è una lettura obbligatoria per tutti coloro che militano in questo campo.
Di Emilio Sereni mi affascina la curiosità di questo raffinato intellettuale che possedeva la conoscenza scritta e parlata di oltre dieci lingue. Nel carcere di Fossano, dove era recluso per la sua militanza comunista, volle studiare il piemontese dei viticoltori locali. Lo studio del loro lessico di lavoro veniva così collegato linguisticamente alla cultura greca trasmessa, attraverso la Liguria, da antiche colonie del Sud della Francia.
Parlare oggi di ritorno alla Terra, di agroecologia, di lotta al caporalato, di dignità dei produttori senza conoscere l’opera e la sensibilità culturale di Emilio Sereni e di Nuto Revelli è per noi italiani una grande carenza.
Le nuove sfide politiche, che si giocano su uno scacchiere planetario, ci insegnano non solo a comprendere il mondo rurale, ma anche ad affrontare argomenti quanto mai attuali. Due esempi su tutti: la produzione del cibo e il suo legame diretto con la salute e la salvaguardia del paesaggio agricolo e della sua bellezza, minacciata da una cementificazione selvaggia. Cosa c’è di più attuale in questo momento storico!
Oggi avere a cuore queste tematiche e, ancor più, il destino di comunità che in ogni angolo del pianeta testimoniano con il loro lavoro e le loro idee l’attenzione per la salute della Terra, è l’unica vera risposta politica forte e trasversale.
È il superamento di quella parte del mondo ambientalista che non presta la dovuta attenzione alla giustizia sociale, alla prevaricazione violenta e fascista sulle comunità indigene. Tutto è connesso! Le istanze originali di quel socialismo a fianco degli ultimi, e di quel partito comunista italiano, non sono alternative alla mobilitazione che sta crescendo sul fronte della sostenibilità ambientale, per la difesa dei popoli sfruttati, per la lotta contro la crescente disuguaglianza e l’aumento della povertà, anche nel nostro Paese. Non ci sarà Sol dell’avvenire se i destini della nostra terra sono compromessi da atteggiamenti violenti e scriteriati.
Dobbiamo guardare a questo centenario senza accettare la tendenza alla rimozione della storia. Diceva la mia concittadina Gina Lagorio: «Rimuove chi ha dei delitti ignorati o che spera tali, da far dimenticare». La rilettura del passato sia fatta riconoscendo la dignità di una storia, quella del Pci, senza la quale quella italiana del Novecento sarebbe stata tanto diversa e tragicamente peggiore.
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