Il vecchio ragazzo americano che avrà da oggi, a mezzogiorno in punto, una piazza italiana dedicata, non usurperà nulla, di quella targa di "Largo Kobe e Gianna Bryant", a indelebile ricordo. A Reggio Emilia, che inaugurerà stamane il sito, a un tiro d'occhi dal proprio palasport, Kobe visse e crebbe. Scuole medie e minibasket: dove, mormorano ancora sottovoce, c'erano bambini più bravi di lui. Ma nessuno che potesse dire in lacrime, dopo un piccolo infortunio, "questo non doveva capitare, devo andare nella Nba", come singhiozzò in spogliatoio, fra compagni che ridacchiavano. E nella Nba ci arrivò.
Persiste tanta vita italiana nel Bryant di cui oggi, in tutto il pianeta, si piange l'anniversario della morte. Parlava italiano, quando incontrava italiani. Aveva scelto per le quatto figlie nomi italiani. Mangiava italiano e qui amava tornare, in vacanza. Tifava Milan. E s'era pure comprato, più di vent'anni fa, insieme al padre, azioni dell'Olimpia, prima dell'era Armani. Toccata e fuga, nè su quello nè su altro con papà andarono molto d'accordo.
Da Pistoia a Los Angeles quanto ci manca Kobe campione senza frontiere
di
Emanuela Audisio
Eppure, era stato per la vita girovaga di Joe, giocatore professionista, che Kobe aveva nutrito queste radici italiane. Era bravo ma non bravissimo, "Jellybean": una caramella, dolce e morbida, i soprannomi possono già spiegare tutto, come "Mamba", di quell'altro. Gran tiratore, Joe, ma zero difesa, e vincente così solo a volte: fa lo stesso, avanti con la prossima. Kobe coltivò l'ossessione del contrario: a fare sport conta solo vincere. Uno dei tanti contrari. Se Joe cambiava squadra quasi ogni estate, Rieti poi Reggio Calabria, Pistoia poi Reggio Emilia, ed era sempre provincia di seconda fila, forse per tutti quei traslochi ingoiati fra i 6 e i 13 anni, Kobe non l'avrebbe fatto mai. Fra i club, puntò al massimo, e con i Lakers stette poi vent'anni. Una maglia basta, se ci entri dentro con la faccia e con la carne, e da ultimo arrivato nemmeno amatissimo ne diventi l'assoluto padrone dei giochi.
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Il primo titolo arrivò nel 2000, a 22 anni ancora da fare. Con quel fiore nuovo e strano che stava sbocciando nel reame indiscusso di Michael Jordan, offrivano un incontro a Chicago, la casa dei nuovi proprietari Caputo e soci dove Valerio Bianchini stava appunto guidando in tournèe quella Milano destinata a non diventare grande. Fu un piacere l'intervista in un italiano declinato al reggiano, mentre Vanessa, allora fidanzatina in rispettosa disparte, se ne stette tutto il tempo accanto alla lontana limousine bianca, quasi a non farsela portar via. Piacere che fu reciproco quando si dilatò nel più largo dei suoi sorrisi, accolto da Kobe con autentica felicità il dono da parte di un comune sponsor. Le scarpette da gioco di Paolo Maldini, viva l'Italia.
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