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Sebino Nela: il giocatore nel suo labirinto

Non lo sai maiper davvero che cosa passa per la testa a un portiere che esce dai pali e si fa scappare la palla dalle mani, a un centravanti che si mangia un gol davanti alla porta spalancata, a un terzino che un giorno s'accorge di non riuscire a correre più. Sebino Nela ha sempre corso. Ha consumato coi tacchetti i prati degli stadi italiani per 17 campionati. È andato alle Olimpiadi, è andato ai Mondiali, ha vinto uno scudetto e a 22 anni ha giocato una finale di Coppa dei Campioni. È finito dentro una canzone di Venditti, scritta proprio per lui (Correndo correndo) quando s'è rotto un ginocchio. Ha sempre volato, e sa che la gente quasi mai capisce cosa succede a un calciatore nel giorno in cui s'accorge di non averne più. "Non sai mai niente dei tuoi idoli, di cosa c'è dietro un calciatore, la sua normalità, la sua forza, le sue fragilità". Il suo libro Il vento in faccia, scritto con Giancarlo Dotto (Piemme, pp. 160, euro 17,50), in uscita il 26 gennaio, nasce – dice al telefono "per spiegare che sotto la maglia c'è una persona". Lo dice nel momento di massimo distacco tra le masse e il calcio, con gli stadi vuoti, mentre si giocano quelle partite che in Inghilterra e in Germania definiscono fantasma, una recita senza platea, nell'età che già registrava prima della pandemia la netta divaricazione tra il mondo dei sacerdoti del rito (loro) e quello dei fedeli (noi).

Zero fuffa
"Molte prestazioni sono figlie di quello che vivi fuori dal campo" racconta Nela, confessando che le autobiografie dei colleghi non gli piacciono ("Inutili, un'insalata mista di aneddoti"), al massimo sarebbe curioso di vederne scrivere una a De Rossi o Gattuso, perché dentro – scrive – ci troverebbe non fuffa e plastica, ma ferite. Le sue ferite sono tante e non ne nasconde neanche una. Tanto è pudico nel sorvolare su quegli episodi che in genere abbondano tra le memorie dei calciatori, così è spietato nel mostrarsi in trasparenza.

La malattia
Nela racconta del giorno in cui ha scoperto di avere un cancro al colon, la chemioterapia fatta tra il 2012 e il 2015, i quattro attacchi ischemici avuti in mezz'ora, le quattro operazioni, il corpo che a un certo punto fai fatica a riconoscere, anche se ti chiamavano Hulk. "Al momento non è tornato. L'umore va e viene". Andò solo, invece, via di casa: senza più tornare. Un giorno, cercando delle chiavi nella borsa di sua moglie, trova un cucchiaio e un tovagliolo di un ristorante.

Con la pistola all'incontro con il pusher
"Decisi di andarmene definitivamente una mattina in cui misi il piede in bagno su una siringa ancora sporca di sangue, dimenticata sul pavimento". Dopo, quattro anni di viaggi e cliniche private in Svizzera. "Per proteggerla, per curarla, per consolarla, per distrarla". Fino a quella volta in cui fanno a Sebino il nome di chi forniva la droga a sua moglie. "Sono andato armato all'incontro con lui, con una 38 special infilata nei pantaloni. Gli animi si sono surriscaldati. Alzò i toni, cercò di mettermi paura, mi minacciò, io ho tirato fuori la pistola e gli ho sparato alla gamba. L'ho lasciato lì, sulla strada. Ero esasperato, mi sentivo impotente". Per questo Nela scrive e racconta, dice che vuole "far capire alla gente che ci segue quanto siano vulnerabili i loro eroi".

Sputi e insulti al Flaminio

La pistola aveva iniziato a portarla insieme a qualche compagno di squadra, come nella Lazio di Chinaglia negli anni 70. Nel libro racconta che il primo a infilarla in tasca fu Agostino Di Bartolomei, dal quale scoprì di essere silenziosamente considerato una specie di fratellino minore. "Perché questa moda della pistola? Non lo so. Faceva figo? Probabile. Avevamo paura di qualcosa? Forse". Un pomeriggio, in viaggio verso Avellino, Liedholm fa fermare il pullman allo stadio Flaminio, dove la Lazio sta giocando un'amichevole. Per guardare un po' di partita. Senza calcolare le conseguenze. Insulti, fischi, sputi. Provano ad andarsene, sono circondati. Uno di loro, Alberto Faccini, prende gli schiaffi. Il pullman s'è allontanato di 300 metri, allora Nela grida a Di Bartolomei di tirare fuori la pistola, di sparare un paio di colpi in aria. Agostino non sparò. "Con il senno di poi fece bene. Ce la siamo vista davvero brutta".

Falcão, il superbo
Nela portava la P38 nella cintura dei pantaloni. Dice che avevano un'arma pure Cervone, Giannini, Desideri. Non Falcão, il divo della squadra al quale riserva parole appuntite, descrivendolo distante, superbo, privilegiato, uno che la domenica mattina, prima della partita, mangiava da solo in camera per dormire qualche ora in più. "Lui, forse, aveva la pistola ad acqua. Poi, con gli anni, è diventato più cattivo e si è comprato il fucile ad acqua calibro 12".

"La mia generazione"
Nela ha attraversato un calcio lontano e dimenticato. "La mia generazione" racconta con la sua voce profondissima, l'accento genovese, "veniva da famiglie molto particolari, non c'era il sogno di diventare ricchi grazie al proprio figlio. I miei avevano una piccola pizzeria. Quanto bastava per tirare avanti con dignità. Mio padre era sardo, era stato cuoco sulle navi. Quando parlava in dialetto, non capivo niente ma lo ascoltavo ipnotizzato. Dei sardi ho preso il carattere ombroso, dei liguri la diffidenza. Sono cresciuto negli anni di piombo, gli anni delle Br, e non so se sia stato meglio o peggio rispetto ai calciatori di oggi, non me lo sono mai chiesto. So che andavo in vacanza a Riccione in una locanda di mezza stella da 267 mila lire a settimana. Eravamo dentro la vita del Paese, c'erano calciatori che facevano politica, oggi se fai una domanda di politica a uno di questi milionari bamboccioni, non oso pensare cosa possano rispondere. Si dedicano a coltivare il fenomeno di sé stessi, alcuni senza essere campioni hanno 400 mila follower".

Fabbrica di miti
Di fianco a lui Giancarlo Dotto, con il quale firma il libro, aggiunge che "il calcio della generazione di Nela era una fabbrica di miti, oggi è tutto tangibile, senza distanza. Sento dire che al calcio manca l'anima, secondo me mancano i corpi, i corpi che bruciano. Come accade nella pornografia, dove l'atto eroico della vita viene sottratto alle fantasie. È sesso senza la clamorosa fantasmagoria dell'attesa, dell'allestimento, della preparazione. L'ultimo grande mito sportivo rimasto è Federer. Credo si ostini a non smettere, proprio perché sente il dovere di far durare il più possibile questa tremenda necessità che abbiamo di sviluppare un mito".

Una rabbia inutile
Nela è stato a lungo commentatore per Mediaset. Dice che tornerebbe in tv ma per le partite, non per lo studio, dove "non capisco questi allenatori sempre arrabbiati. Sono tutti un po' esauriti, convinti di capire di calcio più di quelli che hanno di fronte. Eppure da telespettatore riconosco le capacità di molti ragazzi che lavorano in tv e pongono questioni dirette, mirate, specifiche, trovandosi di fronte dei presuntuosi che non rispondono o sono sgarbati. Ti dicono che hanno vinto, dimenticando che forse avevano tre o quattro giocatori sopra la norma". Dice che la pistola adesso è in un cassetto e il cancro sotto controllo. Lui intanto fuma, Nela fuma e vive.

Sul Venerdì del 22 gennaio 2021

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