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Shepard Fairey: i colori pop della politica

Ha cominciato con lo sticker di un campione di wrestlig – André the Giant – appiccicato sui muri di mezza America e, vent’anni dopo, ha imposto Barack Obama come un’icona planetaria con un ritratto diventato virale. Shepard Fairey (Charleston, 1970), nome di battaglia Obey, sa che cosa vuol dire padroneggiare le immagini. In tre decenni di attività, si destreggia con maestria tra guerrilla marketing e mercato dell’arte, protesta e merchandising, murales e magliette. Il numero due della Street Art, secondo per fama solo a Banksy, espone fino al 26 marzo alla Gam di Roma. La sua mostra 3 Decades of Dissent (a cura di Claudio Crescentini, Federica Pirani e galleria Wunderkammern) è un perfetto prodotto di questo tempo, a partire dalla modalità di fruizione. Nei giorni di chiusura causa pandemia, il percorso di opere si può esplorare a 360 gradi su Lieu.City, neonata piattaforma sviluppata dal gallerista e informatico Deodato Salafia.
Mr Fairey, nel pieno della pandemia, con molti musei chiusi, la Street Art ha guadagnato nuovamente spazio nel dibattito pubblico. Che cosa ne pensa?
«Penso che la Street Art abbia sempre conservato la sua forza, ma con il Covid e le strade libere, gli street artist hanno avuto più opportunità per fare il loro lavoro: sono diventati via via più forti nel prendere posizione sui temi sociali, pandemia compresa. Hanno dimostrato quanto l’arte debba necessariamente essere parte del dibattito pubblico».

Esistono una buona e una cattiva Street Art?
«In ogni settore ci sono il bene e il male. La Street Art è un medium che divide per i messaggi che lancia e per i luoghi in cui questo accade. Per me è esattamente come la libertà di parola: non sono d’accordo con tutto quello che sento, ma penso sia fondamentale che le persone si esprimano. Io scelgo gli spazi in cui creare basandomi sul mio codice etico, rispettando per quanto possibile la proprietà privata, ma sostengo che ci debbano essere più opportunità per le opere pubbliche».

Lei si considera un artista “populista”. L’aggettivo non ha una connotazione troppo positiva.
«Credo in un’arte democratica, accessibile e comprensibile a tutti. Definirsi un artista “populista” non significa assecondare l’opinione comune o scegliere la via più semplice per accattivarsi le simpatie e manipolare la gente. Ma tradurre questioni complesse in immagini e simboli chiari. Nel mio caso, cerco anche di rendere il mio lavoro economico attraverso stampe, adesivi, magliette… Insomma, quello che faccio è accessibile sia da un punto di vista concettuale che letterale».

Come bilancia l’attivismo politico con l’aspetto commerciale della sua arte?
«Non provo a bilanciare nulla. I due aspetti vanno in simbiosi. I progetti commerciali finanziano il mio impegno politico e mi permettono di dedicarmi alle cause in cui credo. Uso la mia arte per fare luce sulle organizzazioni che portano avanti battaglie da me condivise. Il capitalismo non deve essere una scelta tra bene e male. C’è una via per pilotare il capitalismo che può essere etica. Lavoro perché i miei affari riflettano i miei valori».

La Street Art è ormai oggetto di mostre in musei, gallerie, case d’asta. Non le sembra una contraddizione?
«Quella che si vede nei musei, nelle gallerie e nelle aste non è Street Art. In ogni caso, non trovo ci sia alcuna contraddizione: un artista può lavorare in strada ed esporre in musei e gallerie. Chi sostiene il contrario dimostra di avere un punto di vista molto ristretto. Tutti gli artisti devono guadagnarsi da vivere per continuare a fare il loro lavoro: vendere opere non è affatto disdicevole. Questo non impedisce di rivolgere critiche alle gallerie e al mercato in genere».

Che cosa rende potente un’immagine in un mondo pieno di immagini?
«È sempre più complicato costruire un’immagine di impatto. In trent’anni di lavoro ho cercato di rendere speciali anche immagini e simboli già conosciuti. Non c’è una formula: confido nel mio istinto quando mi dice che il risultato è stato raggiunto».

Come realizzò “Hope”, il ritratto che nel 2008 trasformò Barack Obama in un’icona?
«Volevo supportare Obama: credevo nella sua politica. Mi interessava ritrarlo come un uomo con una visione, con uno sguardo da icona patriottica. Mi sono ispirato alle foto della campagna elettorale di John Kennedy del 1960 e al ritratto di Che Guevara di Korda. Dovevo costruire un’immagine nuova che al tempo stesso potesse catturare l’elettorato un po’ più conservatore, non ancora pronto a supportare un presidente nero. Sono fiero di quel risultato».

Non le è venuto in mente di lavorare a un’idea simile per Joe Biden e Kamala Harris?
«Durante l’ultima campagna elettorale, attraverso le mie immagini, mi sono sforzato soprattutto di convincere le persone ad andare a votare. Nonostante il ritratto di Obama, la mia idea è che la politica debba essere esercizio della democrazia in tutti i suoi aspetti, più che il culto di un solo leader».

Ora che si è insediato Joe Biden, pensa che la democrazia americana sia ancora a rischio?
«Sì, dal momento che Trump ha convinto tanti che l’elezione di Biden e Harris sia illegittima: buona parte degli americani vive nella sua bolla mediatica, inconsapevole della realtà. È un bene che Twitter e Facebook abbiano bandito Trump per le sue bugie e l’incitamento alla violenza, ma mi preoccupa che oggi il flusso di informazione e disinformazione mondiale sia nelle mani di poche media company. La democrazia va ristrutturata dalle fondamenta. Si deve partire dalle scuole, dove bisogna riscoprire l’importanza della partecipazione al processo democratico».

Sembra che Andy Warhol faccia parte più di altri del suo albero genealogico artistico. È vero?
«Sì, sono un grande fan di Warhol. È stato uno dei primi artisti a porsi l’obiettivo di raggiungere un pubblico ampio con un immaginario accessibile. Ho fatto miei tanti suoi principi ma mi sono spinto oltre nell’affrontare temi sociali e politici».

È in contatto con Banksy?
«So chi è e ci siamo scambiati delle idee, ma non ultimamente».

Perché non ha scelto di restare anonimo come lui?
«Ho capito che per difendere la Street Art dagli attacchi reazionari che le venivano mossi all’inizio occorreva uscire allo scoperto. Bisognava metterci la faccia, anche se significava rinunciare al mistero e all’essere ribelli senza volto».

Qual è la sua prossima immagine?
«Due dita che fanno il segno della pace in risposta all’assalto al Campidoglio. Con uno slogan: “La pace è radicale, la violenza è debole”. Occorre molta più forza per risolvere le questioni con la diplomazia. La violenza è l’ultimo rifugio dei deboli, dei disperati, di chi odia».

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