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“Nemmeno i moralisti osano più detestarlo”

Sempre più fastoso, gigantesco, forse apocalittico, torna il Festival di Sanremo. E c'è poco da ridere, anche perché è stato depennato Beppe Grillo (una delle scuse: nella notte finale il programma è talmente fitto che si faranno le ore 3,30 del mattino, e un comico sarebbe stato di troppo). Torna il Festival con tutto il suo corredo di chiacchiere, risse più o meno feroci, divismi facili, manovre sotterranee che molti ritengono sordide, speranze dei discografici, un universo che offre le sue redini in mano a Pippo Baudo, nei panni di Giove.

Se ne parla da ben trentasette anni, quando le primissime edizioni, pilotate da "Aramis" Filogamo e dedicate a quei famosi "amici vicini e lontani", sapevano di canzonette in famiglia, di teneri ritornelli subito catturati dai fischi dei garzoni dei fornai. Vivevamo pacificamente in bianco e nero, gli "effetti speciali" non erano ancora colati nei gironi degli spettacoli (e sulle nostre bistecche ritinte coi raggi infrarossi e misteriosi ormoni).

Riappare Sanremo proprio nei giorni in cui dà l'addio alla vita l'ultima delle sorelle Lescano: tramontano i tulipani, avanti coi garofani (senza nessuna allusione da parte nostra). Per quattro sere, anzi quattro notti (Baudo è un notissimo, pervicace tiratardi), trenta milioni di italiani seguiranno questa mostruosa giostra canora, puntandoci anche su un bel po' di miliardi, come è obbligatorio nella nostra Repubblica fondata su scommesse e lotterie.

Per reagire a tanta furia ululante diverse altre reti hanno apprestato programmi alternativi, che forse consoleranno la minoranza silenziosa, quella che non appartiene all'esercito dei trenta milioni. Chi non vuole rivedere Patty Pravo o un certo Mango può chiedere soccorso a un immancabile tenente Colombo, chi rifiuta Romina o gli Spandau può sempre nascondersi in un "tragico venerdì" dove Villaggio impazza. Chi se ne infischia della crisi di vendita (34 milioni di dischi nel '69 e solo 14 oggi, musicassette a parte) dedicherà un pensiero amichevole a Claudio Villa, che fu "reuccio" proprio da Sanremo in poi e oggi deve guardarsi lo spettacolo col cuore ricucito. Del Festival, e specialmente di questo, si è detto tutto da parte di chicchessia: è la "grande illusione", è la "malinconia di sempre", è la "voce del padrone" a misura planetaria ma ancora e sempre un pochino Italietta canora. Nemmeno i moralisti osano più detestarlo, e a Pasolini, che lo trovava "disgustoso", un editore severo come Laterza risponde oggi con un solennissimo libro intitolato appunto "Le canzoni di Sanremo".

E noi? A me, molto sommessamente, vien voglia di ripetere la famosa e sospirata frasetta di Eduardo De Filippo: "Imm'a passà a nuttata". Anzi quattro. Cercando doverosi camuffamenti e però senza sfregiare né sfottere quei trenta milioni di concittadini che nel "linguaggio festivaliero" trovano una loro provvisoria unità comunicativa, come gli succede anche col pallone o la spaghettata.

Corri, dunque, o Festival, scaraventando note, lustrini, pazze acconciature e pigolii dove ti pare. Qualche risvolto inconsapevolmente ironico lo stai già proponendo, infatti: dopo il melenso film dedicato a Garibaldi, ecco che tu, o Festival, ti vendichi proponendo una canzone che si occupa dell'eroe dei due mondi coi seguenti versicoli: "Il Garibaldi è ricercato – in tutti i mari del Sud – ma non si può tagliar la barba – per questioni di look – Anita dice: Peppe, quando gioca il Brasil – si va a vederlo in Italy – pensaci Peppì". Molto bene. E buona notte, visto che quando Sanremo canta anche l'indice dei furti cala: non sono forse questi i veri miracoli "all'italiana"?

Il Giornale, 4 febbraio 1987

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