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I giusti di Ama. Viaggio nel paese del silenzio

Ama di Aviatico (Bergamo)

Qui sono passati gli anni, e gli anni, e nessuno ha mai parlato. C’era un segreto tremendo da mantenere, è rimasto chiuso tra queste case di pietra, il paese ha ubbidito nel silenzio come se fosse ancora nel 1943, e c’erano i tedeschi in piazza, con i repubblichini e gli uomini neri della Decima Mas. C’era anche un gruppetto di ebrei, salito fin sulle Orobie bergamasche a cercare salvezza. L’hanno trovata, ma da allora nessuno ha mai più pronunciato la parola ebreo. Fino a un giorno d’estate del 2016, un giovane insegnante era a passeggio nella borgata di Ama, incontra Giuditta Maria Usubelli di anni 88, si chiacchiera e a un certo punto la donna dice «ah, mi piacerebbe tanto sapere che fine ha fatto la mia amica Elsa, la bambina ebrea che viveva nascosta qui. Sarà ancora viva?». Lui scolora. Si chiama Mattia Carrara, conosce le storie vecchie del suo paese, «però questa non l’avevo proprio mai sentita, neanche dai più anziani». Non ci crede. Interroga Giuditta ancora una volta, chiede i particolari, i nomi, e poi telefona, controlla, e va anche a cercare negli archivi del Comune, «dove non c’è traccia di cittadini ebrei sfollati qui durante la guerra, tra i tanti che salirono da Milano e da altre città».

La storia era vera. La sapevano tutti, nel 1943. Il falegname Luigi Fogaccia. Il parroco, don Modesto Gasperini. I bambini, le ragazze, le loro madri. La maestra Orsolina. I proprietari dell’osteria Madunì, e anche quelli della trattoria Tre Corone, che avevano l’unico telefono. I giovani partigiani della zona, che vivevano nascosti sulla montagna. Il tassista del paese, Gino Fogaccia, che forse era quello più di mondo, perché andava a prendere i turisti alla stazione di Bergamo e li portava su, alla villeggiatura, tra Selvino e Aviatico, ai bei tempi in cui c’erano le ville che aprivano per la stagione, si respirava aria buona e si facevano pranzi e cene, poi a ottobre si scendeva in città.

Bene, di questa frazione Ama, che aveva un cento abitanti in tutto, nessuno ha mai detto una parola della famiglia Iachia di La Spezia (8 persone, più uno zio Alberto Carubà), dei Lascar di Torino (4 persone), dei loro 4 cugini Lascar di Genova. Diciassette persone in tutto, e altre tre non ancora identificate (la sarta Gina e il marito, una bambina Giovanna Giua, una ragazza incinta) che affittavano stanze con documenti falsi, comprati chissà dove. Dopo la Liberazione sono tornati a respirare, dopo due anni vissuti nella paura, di essere venduti, scoperti, e quindi deportati.

«Eh, il mio destino era Auschwitz, invece eccomi qui». Sergio Iachia, 81 anni, nel ’43 ne aveva quattro. «Devo ringraziare un paese, se ci siamo salvati. E Aurora, che ci ha trovati». Si battono i piedi sulla terra gelata, davanti alla piccola chiesa dedicata al Santissimo Salvatore, e qui di salvatori ce ne sono stati tanti. C’è sole ma si è sottozero, e Aurora Cantini spiega al gruppetto che si può fare «una passeggiata, e vedere le case dove erano nascoste le famiglie». Aurora è una di quelle persone come ancora se ne trovano nei paesi, appassionata di storia del posto, «di quelle minime che a volte incrociano la grande storia», uno era Nuto Revelli, che girava le Langhe registrando le voci dei vecchi, quello che avevano passato, le tribolazioni di vite povere e oneste, le guerre, le miserie. «Sono autodidatta, scrivo poesie e libri, vorrei che restasse la memoria», poi insegna italiano con altrettanta passione alle elementari di Villa di Serio.

Aurora accompagna e spiega, dietro ci sono i figli di Giuditta, Annamaria e Giovanni, e il pronipote del prete, che si chiama Fabio Chiesa. Il professor Carrara, ora sindaco. E Sergio Iachia con la figlia Sarah, che dice «l’unica parola è gratitudine. Se Ama non avesse aiutato la mia famiglia, io non sarei qua, oggi». Sarah è stata una benedizione, per la scoperta di questa storia. Un giorno ha visto su Facebook l’appello di Aurora, che cercava notizie di certi Iachia e Lascar, rifugiati ad Ama, provincia di Bergamo, niente di più. Ha risposto, da lì ci sono state molte telefonate, molti ricordi sono tornati alla luce, fotografie, episodi, racconti. Da lì è nato un libro, Un rifugio vicino al cielo, libro piccolo ma importante, edito da Silele Edizioni.

Così, si arriva su una strada in salita, a sinistra c’è una casa che sembra abbandonata, poi il nuovo proprietario la apre, si salgono scale strette e a un certo punto Lascar dice «riconosco le mattonelle, erano queste, bianche e grigie», come si usava nelle case di inizio secolo. E il balconcino dove lui e suo fratello, bambini, si affacciavano su un mondo che non sapevano se ostile — «ero troppo piccolo» — o amichevole, ma di certo erano amici, quegli uomini e quelle donne, silenziosi ma vicini, preoccupati alla morte per il rischio tremendo, consapevoli di star facendo la cosa giusta. Giovanni, figlio di Giuditta: «Nostra madre era molto religiosa, era sicura che sarebbe finita bene. Aveva fede. Ma forse aveva ancora paura, perciò non ne parlava mai. E se ne parlava, io purtroppo non ho mai capito l’importanza dei suoi racconti».

Giuditta era una ragazzina di 14 anni, con le trecce lunghe, una «di quelle che nei paesi le trovi dappertutto, una sveglia». Aveva una nuova amica, questa Elsa Iachia, bionda, nelle foto poi recuperate dell’anteguerra, è una bambina che sorride, ignara di quello che stava per succedere ad altre bambine come lei. «Insieme giocavano, andavano a cicorie nei campi, proprio qui, su questo prato, dove vennero sorprese da un mitragliamento aereo», Aurora racconta, e racconta anche Sergio, che intanto entra in una camera dove ci sono ancora i mobili del tempo, il letto, l’armoir con lo specchio, il comò. «Questa era la stanza dei mei genitori. E qui stavamo io e mio fratello». Non è cambiato niente — è incredibile ma è così — gli anni sono passati e in queste stanze nessuno ha toccato più niente. «Qui stava lo zio Carubà. Poveretto, è poi morto mentre attraversava la linea gotica, a guerra finita. Tornava verso casa in bicicletta con mio padre, venne schiacciato da un camion americano. Mio papà l’ha portato in un cimitero lì vicino, con un carretto».

Ora, sono quasi tutti morti. Di quelli che c’erano, restano i fratelli Guerino e Clara Mosca. Si va sotto la loro casa, che è ancora quella, all’albergo Tre Corone. Si apre una finestra e si affaccia Clara, «quanta paura abbiamo avuto, i tedeschi venivano a cercare mio padre, ci puntavano il mitra in faccia». Clara aveva 8 anni, era piccola e seria. Sapeva cos’era un mitra, e che nell’appartamento a fianco c’erano i Lascar, che durante le incursioni spegnevano tutto e stavano zitti, fermi, pregando.

In quell’albergo arrivava sempre una telefonata di preallarme. Una amica chiamava da Bergamo, e diceva una sola parola: «Arrivano». Era il segnale del rastrellamento del giorno dopo. Il paese si preparava, si immaginano le corse, la paura, le preghiere alla madonna. I giovani caricavano i bambini ebrei in spalla e li portavano a Predale, una borgata di 12 case e 12 stalle, dove si rifugiavano i ragazzi renitenti alla leva, e i partigiani. Cessato l’allarme, si tornava alle case. Finita la guerra, i 17 ebrei sono tornati alle loro città, poveri ma vivi. Che vite hanno fatto, tutti. I salvati e i salvatori, con un terrore che è rimasto lì, fermo, per anni, «perché magari qualcuno vuole vendicarsi, chi lo sa. Meglio stare zitti, ancora un po’». Infine ha parlato la ragazzina Giuditta, quella con le trecce, voleva solo sapere della sua amica Elsa, se era viva, ed era viva. Sono morte prima di ritrovarsi, entrambe hanno avuto famiglie felici, e molti nipoti. Ma ignare e lontane, a volte le cose vanno così.

Libro

Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, Silele edizioni, pagg. 168, euro 16

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