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Cronaca di un ritorno a Colleferro

Nella gabbia mi ci sono ficcato per sentire che effetto fa. Se sei tigre o verme. Carletto, con il quale ho passato nottate a seguire le televendite, sapeva del parrucchiere unisex e altre storie. Carlo Orfei non lo vedevo da un secolo. C’è stato un periodo che insieme a Susie – come la canzone dei Rolling – andavamo, con me in pigiama e vestaglia, in taxi da Tarascio a via Veneto o da Eleuteri a trattare orologioni d’oro e diamanti fancy quando ancora né calciatori, né Netflix, né altri film e umanità ci si ricoprivano (molta roba indossata è falsa). Pare un secolo fa. Ma i secoli sono minuti.

Allora eccoci qua in foto con io che ho i capelli a strastrello sulla fronte, Carlo Orfei in posa come nel Las Meninas e il parrucchiere Simone Prati, rasato con barba e occhiali da vista a sinistra, che ha la sorella che si chiama Pamela Prati come la soubrette. Simone ha imparato a tagliare i capelli a Londra, sorride sopra la barba e mi poggia la mano sulla spalla sinistra. Sull’omero ha tatuato un tulipano e mi racconta che il fulmine che voglio stamparmi sulla tempia possiamo farlo Line Fluo, quando io prima gli dicevo: «Sogno da sempre una cresta. A parte i due orecchini come i nobili tra il Seicento e Settecento».

Simone mi ha detto che l’idea della gabbia gli è venuta in Inghilterra quando al volo dal negozio chiamavano i passanti, per lo più giovani, in mezzo alla strada invitandoli a fare da modelli per tagli e tinte sperimentali. Finita Londra è tornato in questo paese di “boscaglioli” dal sangue acceso e ha aperto Capelli in gabbia disegnando col gesso la gabbia sul pavimento dove ora sono infilato, con il fabbro pronto a saldare le sbarre. Ero elettrizzato. Pensavo come chi guarda foto sbiadite ai gemelli, che poi non sono gemelli altrimenti si sarebbero sbranati come Romolo e Remo. Con uno dei due reciso nel sangue.

Quelli che hanno ucciso Willy erano fratelli, e quel sabato sera prima di saltare sul corpo del ragazzetto di Paliano dove c’è un carcere e una volta abitavano due bellissime bionde conosciute a diciassette anni ma inarrivabili per me, ecco quei due, Zero e Zero Spaccato, prima di saltare su Willy a Colleferro, come si salta su un gattino o un materasso, erano stati dentro la gabbia di Simone Prati pure loro a tagliarsi i capelli come me. Uno più basso, l’altro più alto; muscoli da palestra; sguardo e corpo senza afrore. Uomini non uomini. Profumati. Corpi senza la brutalità della realtà, ma con tanta impotenza della perversione.

Una specie di preservativo colorato con sangue slavato; da globuli non tondi e gonfi di ematocrito di razza “boscagliola”, sana, come la gente che scopava in maglia di lana senza sapere di essere potente quanto gli animali di bosco. No così potenti al pari di chi si scazzottava e colpiva col coltello faccia a faccia con gli occhi scintillanti; neri da lupo; no; no così.

Quella sera, oltre le scale del Due di picche, il locale della città dove una volta c’era la Snia che aveva direttore Cesare Romiti, Zero e Zero Spaccato presero a calci e a saltare su un ragazzetto con la faccia di Obama giovane, appartenente alla città che ha il castello illuminato e che si vede perfettamente di sera dalla terrazza della trattoria Chiocchiò sul cucuzzolo di Artena. Artena, dove si piantavano i fagioli e nascevano briganti. Fecero questo i due fratelli ma non gemelli che entrarono prima di me a farsi belli nella gabbia di Simone che mi tiene la mano e il braccio col tulipano sulla spalla sinistra (nella realtà), e sempre a sinistra ora che riguardo la foto. Fecero così a Willy i fratelli Zero e Zero Spaccato. Non fecero niente di speciale.

Quando qualche giorno prima di tagliarmi i capelli rividi Carlo Orfei, e tornai con lui dopo anni a Colleferro, parlando del Colubro, una contrada di Artena, mi venne in mente che nel 1978 ascoltai qualche canzone al concerto di Rino Gaetano proprio sullo spiazzo. Ero in macchina con un amico proprio come adesso. Tagliammo a destra e vedemmo una band e Rino. Mi intrufolai tra non molta gente, di Rino Gaetano non avevo nessun interesse, ma vidi che alla batteria suonava Mario Achilli mio amico che non vedevo da un bel po’, Claudio Falco alla chitarra, suo fratello Fabrizio tenebroso come Gianni Nocenzi del Banco, sempre alla chitarra, che conoscevo, e il terzo fratello Gildo Falco al basso, pure lui amico di cannoni di hashish; e infine Pino Scannicchio alle tastiere. Ovvio, Gaetano cantava Gianna con la quale era stato a Sanremo. Mentre andavamo nella cittadina che ha una piazza che si chiama piazza Italia, sapendo che Zero e Zero Spaccato venivano dal Colubro, Carlo Orfei mi raccontò che da queste parti anni addietro avevano trovato un uomo carbonizzato in un’automobile. Invece ero a conoscenza che, sulla collinetta prima di Artena, il proprietario di una azienda di legname era stato fatto inginocchiare e poi tagliato a tronchi con una sega elettrica. Una storia nera quanto dieci quintali di bidume rivoltati su un innamorato che cantava Occhi di Ragazza di Gianni Morandi.

La strada per Colleferro era oscura, piena di buche, strarompicazzo, dannata. Ora la ritrovo una pista liscia. La carreggiata ampia. Viaggio con Carlo Orfei quando a destra leggo Hotel degli Amici. Il mio amico: «Lavorava qui Willy, e quella sera appena finito il turno andava a Colleferro, nel locale dove vanno tutti. Ti ci porto».

Rivedo gli occhioni del ragazzetto con la faccia di Obama giovane che abitava a Paliano. Nella testa mi si stampa una data: 1982. Di notte andavamo io e Mauro nelle campagne di Paliano dove c’era un locale da ballo. Era il periodo in cui mi attraeva guardare le persone, studiarle, vedere come cambiassero i loro comportamenti. Ero affascinato da quella balera con una ragazza che cantava nel gruppo dispersa nella campagna. Mi invaghii di lei. Non sapevo il nome, chi fosse, l’avevo veduta una sera e basta. Si era disciolta. Allora con una stupida “dritta” del cameriere in tasca, seppi che era di Colleferro. Mi misi alla ricerca. La trovai. Mi presentai con un gessato da Al Capone, lo stesso indossato al matrimonio di Fellini con la tedesca; Fellini però che non era Fellini ma un ragazzone ai tempi del punk. Insomma, in una Colleferro nuda e triste. Spogliata delle sue industrie, polverosa, gelida, incontrai in un bar la ragazza. Me ne andai deluso. La città, tremenda. La cantante la percepii nuda e tremenda come la città. Funzionava solo l’ospedale perché il bravissimo dottor Rocco Battista vi aveva installato un centro dialisi super avanzato.

Adesso, dopo secoli, a Colleferro vedo la rotonda illuminata. Nuovi negozi. Altri bar. La via che porta a Segni e Carpineto è a un solo senso di marcia. Punto a cercare di ricordarmi (senza alcuna fatica perché il tempo distrugge ma non mi fa dimenticare) dove nei Sessanta c’era il Living, una discoteca alla moda, frequentata da gente tosta ricca, ganci tosti e pariolini che partivano in GT Alfa Romeo da Roma. Ci andavo da ragazzino nei primi Settanta. Indossavo un bomberino di pelle lucida con sotto niente. Fumavo Marlboro. Non parlavo mai.

Colleferro è una cittadina che trovo incantevole, come tornata ai fasti del boom economico. Piazza Italia, identica al dipinto di De Chirico. Negli Ottanta abbandonata e svuotata, eppure anche allora sempre magnetica per il fascino che mi legava alla sedia della tortura emotiva. Ora è perfetta. Il municipio, la caserma dei carabinieri, qualche negozio. Di lato, la chiesa di santa Barbara che riproduce meglio dei portici De Chirico. Sono incantato. Vorrei comprare una casa anche qui. Vedo una stupida automobilina arrapante (non ricordo il nome) e Carlo Orfei controlla casa automobilistica e cilindrata. «Potremmo usarla per divertirci» gli dico eccitato. Eppure Willy l’hanno preso a calci oltre questo palazzo rispetto a dove siamo. Decido di vedere il Due di picche. Salgo le scale. C’è poca gente seduta ai tavoli all’aperto. Non voglio entrare. Penso che Zero e Zero Spaccato al cameriere di Paliano abbiano detto: «Frocio zitto!». E lui: «Lasciatemi in pace». Zero o Zero Spaccato, ricoperti di tatuaggi come la mappa di questo mondo devastato, gli tirano due tre calci senza rispondere, mentre Willy incomincia a scendere i gradini che lo porteranno in mezzo alla strada, adesso che Colleferro ha le luci giuste, con il vecchio mercato coperto non abbattuto, con il cinema teatro Vittorio Veneto che resiste ai decenni. «Lasciatemi» mugugna Willy con la bocca piena di sangue. Cerca di attraversare la strada. Niente. I due, con gli occhi disegnati a forma di pesce, lo tengono a zampate. Colpiscono. Chissà se volano i soliti «pezzo di merda», «negro», «ti massacriamo».
Non lo so, né voglio saperlo. I fatti stanno qui per terra.

Willy si ritrova al centro di uno spiazzo che fa da aiuola a un pino gigantesco. Non so se sapesse che la piazza a cento metri, che ho da sempre adorato, si chiama Piazza Italia; che la chiesa si chiama santa Barbara. Non lo so. Invece è certo che sotto il pino i gemelli che non sono gemelli, incominciano a saltargli sopra. Si lanciano in alto come se dovessero colpire un pallone e ricadono coi tacchi sulle spalle, la pancia, i genitali, la faccia di Willy che vive a Paliano. A Paliano dove sotto l’arco del Castello, tre secoli fa, pranzai con mia madre quando ero sicuro di vivere mille anni. Willy è schiacciato. Come un gatto o un cane dalle macchine. Al posto di Willy ci sono i soliti fiori portati sui luoghi della morte. Non passo in rivista a questo guazzabuglio di ex voto. Alzo il capo per misurare, occhio e croce, l’altezza del pino. Penso: «Così alto e grosso avrebbe potuto difenderlo il ragazzetto». Con Carlo Orfei decidiamo di vedere se ancora esiste il Living. C’è la sua lunga vetrata. Non è più discoteca. La Colleferro concentrata e mite; questa che ritrovo alla sua quarta trasformazione non ha difeso Willy. Ne sono turbato perché è una cittadina graziosa.
Oggi è domenica 8 novembre. Martedì, alle ore 15, torno a Lariano da Simone Prati a farmi i capelli nella sua Gabbia. Ancora non so fuggire da lei.

Il racconto

Una versione più lunga di questo articolo di Aurelio Picca sarà pubblicata
su Nuovi Argomenti, in uscita il 26 gennaio

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