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“Mi fermo qui”. Dumoulin e il ciclismo che non riconosce più

Tom Dumoulin scende di bici, non sarà più un corridore per ora e forse per sempre, nessuno lo sa e lui non l’ha ancora capito. “Da molto tempo ormai sento che è molto difficile per me orientarmi come ciclista. Voglio che la squadra sia felice con me, voglio che gli sponsor siano felici, voglio che mia moglie e la mia famiglia siano felici. Voglio il bene di tutti. Ma io cosa voglio davvero? Voglio ancora essere un ciclista? Se sì, come? Devo scoprirlo”. Per farlo l’olandese della Jumbo-Visma chiude per il momento con ritiri, allenamenti, programmi. Ha lasciato Alicante, dove Roglic e gli altri del team giallonero stanno preparando la stagione. A lui, ieri, chissà quanto in modo condiviso, la squadra aveva assegnato ancora ruoli di secondo piano: una primavera sul pavé, frequentato una volta sola, in un remoto Fiandre del 2012, e poi il Tour da spalla di Roglic. Per un grande campione come Tom, vincitore di un Giro e di un Mondiale a cronometro (2017), sarà sembrato un piatto misero, un futuro di piccolo cabotaggio dopo le grandi navigazioni degli anni d’oro.

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C’è anche dell’altro, naturalmente. Tra quei tempi e questi giorni in mezzo si è posto l’incidente di Frascati, al Giro 2019, il grave infortunio al ginocchio che gli portò via tutta la stagione, e il lento recupero, fatto di grandi delusioni e senza neppure lo straccio di una vittoria. Il cambio di squadra lo scorso anno, dalla più romantica Sunweb alla più ambiziosa e spregiudicata Jumbo, gli ha tolto spazi e potere decisionale. Possibile che lui volesse tornare all’amato Giro, da capitano unico. Tutte spiegazioni, queste, che forse atterrano lontano dal bersaglio, e che prescindono dallo spessore umano del grande olandese, dalle sue fragilità mai mascherate del tutto da un fisico possente che ne aveva fatto il più grande cronoman della sua generazione e, anche, uno dei migliori delle grandi corse a tappe dal 2015.

Cinque anni sono uno spazio enorme nel ciclismo di oggi, che divora e ricrea personaggi a getto continuo. Quella classe ’90 che aveva trovato in lui il miglior interprete via via si sta perdendo, tra i guai di Aru, gli inganni di Quintana, le paturnie di Pinot, l’incostanza di Bardet, l’onnipotenza in declino di Sagan: tutta gente che, in mezzo agli Evenepoel, ai Pogacar, ai Van der Poel e ai Van Aert sembra irrimediabilmente finita, prima del tempo. E prima che il tempo lo dicesse forse Dumoulin si è chiesto quale fosse il suo posto in questa storia, e si è dato una risposta terribile: “Cosa succederà adesso ancora non lo so. Di sicuro parlerò molto, chiamerò amici. Penserò, uscirò col cane, cercherò di capire cosa voglio adesso come essere umano. È come se mi fossi tolto dalle spalle uno zaino di cento chili”.

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Una liberazione dalla routine allenamento-gara-alimentazione controllata-peso-massaggi, e poi di nuovo, e così da anni, e così per anni ancora. Ci vuole maniacalità e questo ciclismo ne richiede tanta, forse troppa, è un treno che non puoi non seguire, chi scende è perduto. Mancherà, ha detto, forse due mesi, forse di più, forse non tornerà mai più. Il contratto con la Jumbo-Visma scade nel 2022. Si chiamava depressione il demone di Marcel Kittel, stessa squadra di origine di Dumoulin: all’apice del successo, il tedesco salutò tutti. La pandemia allunga queste ombre, in chi ne ha, isola e mette di fronte a se stessi: chi eravamo prima non lo sappiamo e non ce lo ricordiamo.

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Un’immagine, tra le tante, torna in mente: quella del ginocchio rosso di sangue, rosso come la maglia della Sunweb, il giorno di Frascati. Provò a partire nella tappa successiva, ma non arrivò al km 0. Mancherà, ma la cosa non è reciproca, evidentemente, ed è giusto che Dumoulin si riprenda la leggerezza che gli è mancata, che da tanto non aveva più.

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