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Paulo Sousa, un cervello in panchina. Riparte dalla Polonia

Intanto, per prima cosa, la voce. Bassa e molto profonda, quasi impostata, da attore di teatro. Poi l’eloquio forbito già quando giocava a calcio, perfezionato nella dialettica da allenatore e nella fascinazione di comunicatore (c’entrano, forse, le cadenze e la morbidezza sillabica della lingua portoghese). Poi lo sguardo da bel tenebroso e una certa somiglianza giovanile con Javier Bardem. Ma soprattutto l’eleganza, la cortesia, la postura umana così dissonante rispetto al calcio isterico e volgare di tanti.

Paulo Sousa è sempre stato un tipo speciale. Ottimo centrocampista, un “cerebro” come direbbero gli spagnoli, e poi un tecnico evoluto, amante del gioco aggressivo e d’attacco. A un certo punto sembrava predestinato a grandi panchine, era riuscito ad essere primo in classifica con la Fiorentina. Ma qualcosa nel cammino s’è spezzato o solo rallentato, e dopo non gloriosissime esperienze in Cina e in Francia eccolo alla guida della nazionale polacca, appena chiamato dal presidente Zibì Boniek. Altra bella testa, altro ex juventino “bello di notte”.

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Paulo Sousa, che venne accostato a Falcao anche se rispetto al brasiliano giocava più avanti (e non era, senza offese, a quel livello), insomma si poteva definire un regista con attitudini di mezz’ala, più il primo della seconda ma sempre con estrema duttilità, restò in bianconero per un paio di fondamentali annate. Riuscì a vincere da titolare la Champions League (ma fu sostituito al 52’ da Di Livio) nel ’96 all’Olimpico contro l’Ajax ai rigori, l’ultima Coppa dei Campioni della Juve ormai un quarto di secolo fa. Il regista portoghese (decisivo il suo gol nella semifinale di ritorno a Nantes, anche se lui segnava poco) era una colonna della feroce squadra di Lippi, dove portava geometria e sapienza. Divideva la camera con Vialli, sempre elettrico quanto Paulo era dormiglione. Un introverso, e allo stesso tempo un leader. I compagni lo stimavano moltissimo e Lippi trascorreva molto tempo con lui a parlare di tattica. Come si dice in questi casi, il bel Paulo era già un allenatore in campo. Il gossip di quegli anni narra pure di una love story con la figlia dell’allenatore juventino, di sicuro Paulo Sousa ha spezzato molti cuori, compresi quelli dei tifosi bianconeri ai quali tolse la Champions nel ’97, quando ormai indossava la maglia gialla del Borussia Dortmund che trionfò in casa una finale inimmaginabile, appena un anno dopo la favolosa notte romana della Juve.

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Personaggio atipico, Paulo scambiava romanzi con Gianluca Pessotto, prediligendo la narrativa lusitana, Pessoa e Saramago su tutti, ma in Italia un amico giornalista gli fece scoprire Antonio Tabucchi. Apprezzava anche Pasolini e Moravia, sono cose che non lasciano indifferenti. A quel tempo, Sousa immaginava un dopo carriera lontano dagli stadi: voleva aprire una casa editrice per bambini. Del resto, da ragazzo avrebbe voluto fare il maestro elementare.

Poi, però, il talento di didatta gli aprì le porte di un nuovo mestiere, quello che aveva già dentro di sé. Portogallo, Inghilterra, Ungheria, Israele e Svizzera sono state le tappe di avvicinamento tecnico alla serie A, dove nel 2015 gli fu affidata la guida della Fiorentina. Sei vittorie nelle prime sette partite significarono il primo posto in classifica dopo sedici anni e una stima sconfinata, seconda quella regola per cui i risultati sono tutto, e quando poi mancano sono la fine di quasi tutto. Amato dai giocatori e dallo staff, dal presidente ai magazzinieri, Paulo Sousa riuscì ad arrivare quinto: gran risultato, al punto però da ingenerare qualche illusione e rendere l’ottavo posto della stagione seguente quasi un fallimento, tanto che Paulo non venne confermato e gli fu preferito Pioli, scelta peraltro notevole.

Da quel momento, la stella di Paulo Sousa si è un poco offuscata. Le esperienze al Tianjin Quanjian (con esonero) e al Bordeaux (contratto rescisso) non hanno confermato la visione iniziale di un allenatore preparatissimo, intelligente, carismatico ma forse troppo quieto, troppo signore per poter nuotare con disinvoltura nelle vasche degli squali. Quella che Zibì Boniek gli offre adesso è un’occasione per risalire, sebbene la Polonia non sia calcisticamente a centro del mondo. Ma i veri maestri cominciano dalle elementari.

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