PECHINO – "L'Oriente è in ascesa e l'Occidente è in declino, questa è la tendenza". L'ultimo a ripeterlo tra i papaveri di regime è stato Chen Yixin, uomo forte della sicurezza di Xi Jinping. Ma negli ultimi giorni questo concetto è tornato spesso in Cina, tra discorsi ufficiali e meda di regime, in varie sfumature diverse. L'anno del coronavirus ha rafforzato la leadership nella convinzione che gli equilibri di potere globali stiano scivolando dalla sua parte, che il socialismo con caratteristiche cinesi sia più capace delle democrazie liberali di affrontare le sfide del mondo globalizzato. Ci sono una serie di prove a sostegno, tutte discutibili ovviamente, nessuna trascurabile: la Cina è stata il primo Paese a contenere il virus, la prima economia globale a ripartire, l'unica tra le grandi a chiudere l'anno in positivo (+2,3%), e nel frattempo ha pure "normalizzato" Hong Kong e raggiunto il suo primo traguardo di benessere secolare, cancellando la povertà assoluta dalle aree rurali. Ed è con questa convinzione che Pechino seguirà la cerimonia di insediamento di Joe Biden, sottolineando come Washington si debba blindare per evitare altri disordini, altro segno della crisi del modello americano.
Cosa si aspetta la leadership comunista dal nuovo presidente? Non molto, nel medio e lungo periodo. A Pechino sono convinti che l'establishment americano tutto veda la Cina come il principale avversario e che quindi l'obiettivo sarà comunque contenerne l'ascesa dal punto di vista tecnologico e la proiezione militare strategica in Asia. È possibile che l'amministrazione Biden non inquadri la relazione nei termini di una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti, a differenza da quanto fatto soprattutto nell'ultimo periodo dal segretario di Stato uscente Mike Pompeo. Appena poche ore prima di lasciare l'incarico Pompeo ha tirato l'ultimo attacco a Pechino definendo la repressione della minoranza musulmana degli uiguri "un genocidio".
Ma non è possibile che si torni indietro all'era dell'engagement, strategia giudicata fallita anche dai reduci dell'amministrazione Obama: è probabile che molte delle misure più strutturali messe in campo da Trump in tema di commerci e hi-tech non vengano cancellate, almeno nell'immediato; soprattutto resterà la competizione, quindi l'obiettivo di Pechino è farsi trovare pronta. Il prossimo Piano quinquennale, da approvare a marzo, rilancerà il concetto di autosufficienza in settori strategici, mentre sul piano internazionale la Cina farà tutto il possibile perché Biden non riesca a saldare un fronte delle democrazie liberali. I due accordi economici chiusi nelle ultime settimane, quello commerciale con i vicini d'Asia e quello sugli investimenti con la Ue, rappresentano da questo punto di vista un enorme successo per Xi. Ma non sono una garanzia: il Dragone è circondato da Paesi che lo temono, alleati degli Stati Uniti. E la squadra di politica estera di Biden, con in testa Antony Blinken, ha tra i suoi primi obiettivi quello di rilanciare la rete di alleanze di Washington, indebolite dall'unilateralismo di Trump.
di
Federico Rampini
Ieri Da Wei, professore tra i maggiori esperti cinesi di relazioni con gli Stati Uniti, ha scritto che è interesse di Pechino "stabilizzare" il rapporto con l'America. E' probabile che, dopo un periodo iniziale di studio, la Cina segnali la propria volontà di riaprire un dialogo, mettendo avanti i temi su cui sa di trovare interesse in Biden, primo fra tutti il cambiamento climatico. Da un lato un periodo di distensione, anche parziale, farebbe comodo alla leadership per concentrarsi sulle questioni interne, va aperta quella che Xi chiama la "nuova fase di sviluppo" del Paese. Dall'altro ricalibrare i toni della propaganda, con un interlocutore molto diverso, sarà una delle principali sfide. Gli attacchi dell'amministrazione Trump sono stati continui, ma anche utili a Pechino per compattare l'opinione pubblica interna all'insegna del nazionalismo. Ora la competizione diventerà sotto molti aspetti meno violenta, ma anche più sottile.
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