“Poi dovrebbe toccare a me: vorrei arrivarci da vivo, quanto meno ci proverò, ho deciso di non mollare”: con le solite parole pugnaci, poco prima di Natale, il poeta e scrittore Stefano Vilardo aveva espresso il desiderio di presenziare al suo centesimo compleanno, prossimo venturo (l’avrebbe festeggiato il 22 marzo del 2022), dopo avere onorato quello dell’amico fraterno Leonardo Sciascia, celebrato di recente. Non c’è riuscito, nonostante la sua tenacia e una voglia di vivere talmente debordante da contagiare quanti passassero a tiro da lui. È morto oggi, a Palermo, a 98 anni.
A chi l’ha conosciuto e frequentato, davvero Vilardo sembrava l’highlander della letteratura siciliana, l’ultimo immortale destinato a resistere nonostante fosse ormai il testimone di una Sicilia destinata allo scacco, votata alla cancellazione, spazzata via da un’impietosa mutazione antropologica.
Lo aveva confessato a chi scrive anni fa, in occasione di un’uscita editoriale che lo riguardava: voleva succhiare tutto quanto il midollo della vita, anche se costretto a stare supino, inchiodato a un letto dal quale si sollevava aiutandosi con le sue cravatte. “Nel 2021 – come anticipò alla fine dell’ultima intervista – uscirà un mio racconto, che ho affidato al nipote di Sciascia, Vito Catalano: vedrà la luce in un volume di autori vari. Ma vorrei pubblicare una raccolta di ricordi legati al mio paese, Delia. Pensavo di intitolarlo: Preti e personaggi strani del mio paese. Chissà, forse ci riesco”.
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Non c’è riuscito, maledizione: se avesse potuto (ragioniamo per assurdo), su questa sua fuoriuscita “intempestiva” dalla vita Vilardo avrebbe fatto una delle sue battute caustiche, mordaci, articolate nella tipica pronuncia del suo paese d’origine, Delia, dove era nato nel 1922.
Per campare Vilardo, il quale non ha mai smesso un attimo di alimentare il sacro fuoco della letteratura, ha insegnato nelle scuole elementari del suo paese, di Caltanissetta e poi di Palermo, dove avrebbe messo radici nel 1972 con la moglie e i tre figli Luigi, Orazio e Concetta, continuando a frequentare il suo Nanà, l’amico di una vita che aveva conosciuto tra i banchi dell’istituto magistrale di Caltanissetta, il confidente, ma anche suo talent scuot ed editore.
Era stato Sciascia infatti a fargli tirare fuori dai cassetti i versi che poi avrebbero dato forma a raccolte come “I primi fuochi” (Sciascia editore, 1955), e poi “Il frutto più vero” (1960). Una poesia “idilliaca, d’amore” l’aveva definita lo stesso Vilardo nel corso di un’intervista rilasciata nel 1975 a Vincenzo Consolo. La consacrazione nazionale sarebbe arrivata quell’anno stesso con “Tutti dicono Germania Germania”, pubblicato da Garzanti con l’introduzione di Leonardo Sciascia (e riproposta da Sellerio nel 2007): una raccolta di voci degli emigrati di Delia concepita alla stregua di una piccola “spoon river” isolana, uno dei rari documenti sull’emigrazione, ma ricreati dal poeta, grazie a una mediazione che spiccava come il “maggior merito di questo libretto”, per dirla ancora con lo scrittore di Racalmuto.
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Una sorta di esperimento di etnografia poetica o di poesia sociologica davvero notevole. Nel 1988 videro poi la luce “Gli astratti furori”, ancora per i tipi di Salvatore Sciascia: una raccolta che piacque non poco a Camilla Cederna, segnatala con entusiasmo su “Panorama” qualche anno dopo. Vilardo però, da autore inquieto e metamorfico, avrebbe a un certo punto momentaneamente abbandonato le plaghe della poesia per veleggiare dalle parti della prosa : vennero fuori due romanzi, “Una sorta di violenza” nel 1990 e “Uno stupido scherzo” sette anni dopo, vergati però con una scrittura fortemente evocativa, dalle impennate poetiche insopprimibili.
Il primo fu recensito, tra gli altri, da Grazia Cherchi su “L’Unità”: un libro insolito e singolare, con al centro Lorenzo Cutrano, un contadino dalla bruttezza fuori dal comune e causa della sua emarginazione, che si sommava a una passione politica soppiantata via via da una profonda disillusione. Da qui il suo rancore incontenibile nei confronti dei padroni, di chi comanda, e una consapevolezza che era profonda conoscenza della vita e delle magagne del mondo.
Negli ultimi anni Vilardo aveva tirato fuori, ogni tanto, qualche dono prezioso per i suoi affezionati lettori: il libro conversazione “A scuola con Leonardo Sciascia” (Sellerio, 2012), il volumetto “Si conta e si racconta” (Lussografica, 2015, in cui aveva tradotto, rileggendoli, quattordici racconti di Salvatore Salomone Marino). Nel 2016 è poi uscita la raccolta di narrazioni brevi dal titolo “Le nevi di una volta” (Thule Edizioni).
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