L’inflazione argentina ha chiuso il 2020 con un tasso al 36,1 per cento. Per il ministro dell’Economia, Martín Guzmán, è un successo. Lo dice lui stesso facendo notare che l’aumento dei prezzi era diminuito di ben 17 punti rispetto al terribile 2019, quando era del 53,8. “La strada da seguire è questa, bisogna continuare a ridurli”, spiega. Ma i segnali non vanno tutti nella stessa direzione. Anzi: c’è stata un’impennata di quella che viene chiamata inflazione soggiacente, l’inflazione che sconta beni e servizi regolari e stabili. Nel solo mese di dicembre è salita di 4,9 punti e in alcuni prodotti al consumo, come la carne, il pane e l’elettricità l’incremento è stato maggiore.
Ma Guzmán non si perde d’animo. Insiste nella sua strategia e si dice convinto di riuscire a ridurre l’inflazione di cinque punti l‘anno. In questo 2021 dovrebbe scendere al 30 per cento. “Bisogna adottare una politica macroeconomica integrale di molteplici dimensioni: quella del cambio, fiscale, monetaria; e poi ancora agire sulle tariffe, sui prezzi e le entrate sui quali lo Stato svolge un ruolo fondamentale”, riflette.
Il cambio è quello che mostra un altro indice preoccupante. La svalutazione del peso rispetto al dollaro è stata ben superiore all’inflazione. Nel gennaio del 2020, al mercato libero, la moneta statunitense si comprava con 78 pesos; un anno dopo ce ne vogliono 160, più del doppio. Questo significa che il valore della divisa argentina si è dimezzato per gli stretti controlli sui cambi. I risparmiatori sarebbero tentati a fare man bassa del biglietto verde alimentando altre svalutazioni e, di riflesso, l’aumento dei prezzi.
Un mese (aprile scorso) di blocco della produzione e quattro di semi paralisi per le quarantene dovute alla pandemia Covid hanno finito per stravolgere i conti e frenare le misure adottate dal governo di sinistra di Alberto Fernández. Si stima che il deficit fiscale primario nel 2020 sarà attorno al 7 per cento, il più alto della storia recente. La politica monetaria ha subito una distorsione brutale: la necessità di compensare il deficit preventivo, senza avere accesso ai mercati del credito, ha obbligato a stampare ben due milioni di pesos.
Ma visto che le due zecche argentine, nonostante abbiano lavorato 24 ore al giorno, non sono riuscite a coprire la domanda, la Banca Centrale ha dovuto chiedere rimesse eccezionali di moneta a Brasile e Spagna. Tutto questo, sostengono gli analisti, alimenta l’inflazione futura: stimano che l’indice, nel 2021, sarà vicino al 50 per cento. Oggi resta comunque la seconda più alta del Sud America, dietro il Venezuela che ormai è fuori controllo.
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