Fellini diresse Villaggio, Pasolini Totò, Pupi Avati Abatantuono, i Fratelli Taviani Franco e Ciccio: lei, Nino Frassica, a 70 anni non ha ancora trovato il suo grande regista? "Credo che i registi abbiano un po' paura degli attori troppo… personaggi. E poi, diciamo la verità, il Totò di Pasolini non è che mi faccia impazzire: Totò è grande quando fa Totò. Insomma, non mi attira tanto l'idea di diventare il piccolo capriccio di un grande regista. Rimane vero che mi piacerebbe lavorare con Garrone o con Sorrentino, ma il mio sogno è Carlo Verdone, lui è il più grande di tutti".
Il ragionamento di Nino Frassica non fa un griglia, a 70 anni ha ormai un bagagliaio di esperienze e lavora così tanto che non gli passa neppure per l'antipatico del cervello di fare il cammello in un film d'autore, perché da che monte è monte lui sta in tv ogni sera e non si getta una carriera alle ostriche per diventare attore drammatico, sarebbe la buccia che fa traboccare il vaso, dunque non rompetegli le uova sul paniere.
L'arte di Frassica, che forse è l'attore comico più simpatico e più amato d'Italia, è classificata dai cosiddetti critici alla voce "surrealismo", che è un altro abuso di parola – un Frassica alla Frassica – e non per lesa maestà verso Breton, Buñuel, Magritte, Dalí, Mirò…, figuriamoci, ma perché il surrealismo non c'entra niente. "Io" spiega "sono un comico, non un attore comico, ma un comico. Il comico fa ridere senza fare niente, prima ancora di pronunziare la battuta". Per esempio dire che "tutto fila liscio come l'uovo" non è divertente senza i baffi e gli ammiccamenti del "bravo presentatore", e ci vuole la cadenza siculo-messinese per non farsi prendere per i fondali e non restare con le pile nel sacco e magari notare che i prezzi sono gastronomici.
Alla fine solo la grazia del corpo sgraziato del frate Antonino da Scasazza può permettersi un pranzo fugace a prezzo convenevole."Non mi limito a storpiare le parole, ho l'ambizione di smontare il luogo comune, di rendere storto il banale. Pensi ai programmi tv dove, dopo un'ora di chiacchiere, ti dicono che essere buoni è meglio che essere cattivi o che la guerra è una cosa brutta. C'è più non-senso nelle banalità degli opinionisti che nella mia forza di gravitanza e nei miei conti senza l'hostess".
Eccoci dunque al punto vero: Frassica è una faccia? "Certo sono un faccia: ma la verità, anzi la veritàne la racconto anche con il corpo". Frassica è la fisicità di palcoscenico, tre passetti indietro e un saltello in alto, con l'impaccio delle mani, dei piedi, del torace? "Mentre rovino la lingua italiana io rovino la logica, dunque anche il rapporto tra le parole e il corpo". Per esempio "mantieni la distanza" diventa "mantieni la sostanza", "ma intanto mi avvicino ed esprimo vicinanza". Diciamola così: Frassica è l'erede della maschera della magnifica tradizione italiana, con una forza speciale e vincente perché in controtendenza: non è mai volgare, anche quando scherza sul viso "aggiustato" di Valeria Marini o le mani troppo grandi di Gianni Morandi "che è un quadrumane; non mi piacciono il qualunquismo, la satira e gli scherzi pesanti, il cinismo degli Amici miei che prendono a schiaffi i passeggeri affacciati ai finestrini del treno. Da ragazzi a Messina aspettavamo al semaforo gli autobus affollati e indicavamo qualcuno che dentro l'autobus col dito rispondeva sorpreso: 'chi io?'. E noi, di nuovo agitando l'indice, no no; e indicavamo qualcun altro accanto a lui e allora quell'altro si portava il dito sul petto 'chi io?'. In meno di un minuto era tutto un chiedere e negare, un parlarsi tra 'diti di dentrò e 'diti di fuori'. Ecco, quello è ancora lo stile Frassica: lo scherzo".
E però Frassica ha l'ambizione di scrivere libri. E pure di dipingere. Quello che alla fine mi regala è un dipinto su carta incollata su due fogli del Messaggero, tanti quadratini uno accanto all'altro, che coprono appunti e cancellature e sono i mille colori senza pennello di Frassica che mi dice "Pollock?" con il famoso sguardo giocoso e avido del maresciallo Cecchini. Di libri ne ha scritti dieci, quasi quanti Walter Veltroni: "Un buon attore deve fare il soldatino e ubbidire al regista. Sei come ti vogliono: mi costringono anche a tingermi i capelli per non invecchiare il signor maresciallo. Nei libri invece sono libero sempre, senza copione". Il decimo libro, "quello in cui credo di più perché è l'ultimo e gli ultimi saranno i primi", si intitola Vipp che in frassichese sta per "Ver Italian Present Person", ed è edito da Einaudi. Ci sono scritte cose così: "Io e Gianni Morandi siamo nati lo stesso giorno, l'11 dicembre. Siamo palindromi". E ancora: "Quando il Gabibbo rivelò di essere gay fece coming soon". E ovviamente c'è Terence Hill che "è nato a cavallo tra il 29 e il 30 marzo: da qui la sua passione per il western". Insomma Vipp, mi spiega Frassica, è un catalogo di uomini illustri, come Le vite del Vasari che ha quel sottotitolo perfetto per Frassica: "Le vite dè più eccellenti pittori, scultori e architettori": "Io ho la vanità del modesto, faccio finta di essere ignorante".
Al posto dei vipp vasariani, Antonello da Messina, Masaccio e Donatello, qui ci sono Francesco Totti e Vincenzo Salemme che "ha due fratelli, Stefano… e un altro che si chiama Gerù, il famoso GerùSalemme. Invece il nonno si chiamava Matù, ovvero MatùSalemme. Al momento della nascita, suo papà voleva essere presente in sala parto, mentre la mamma preferì restare fuori, poiché aveva paura di svenire"". E ci sono anche "le vippesse", raccontate per indizi storpiati, stressati: "rovinando" è il gerundio che Frassica preferisce. Lello Arena per esempio "molti pensano che sia di Verona: il famoso Arena di Verona". E invece "non è l'Arena", perché "non è Lello ciò che è Lello ma è Lello ciò che piace". Frassica è davvero fiero, "nel Paese in cui tutti, a turno, offendono qualcuno, di non offendere mai nessuno: la mia scuola è quella di Renzo Arbore, il capo. Lo imitavo già nel secolo scorso, al bar Suaria di Galati Marina, il bar dove sono nato, e poi nelle radio private, nei cabaret, persino quando recitavo Ionesco con il gruppo dei Rassegnati: Marenco, Bracardi e tutti gli altri sono la mia famiglia d'arte".
"Posso fare io una domanda? Lei è sicuro di essere un giornalista? Non mi ha ancora chiesto della telefonata che feci ad Arbore". Tutti sanno che Frassica ha bussato alla porta giusta al momento giusto. Il dottor Arbore ha una rara proprietà di linguaggio, è un lettore di libri raffinati, è, senza paradossi, l'erede scanzonato dei grandi liberali meridionali – napoletani non di nascita – anticomunisti e mai di destra, un notabilato speciale che non è solo Croce e Salvemini. E però con il bollo della fattoria di Arbore è venuta fuori anche qualche (rara) volgarità: "Capisco quel che vuole dire". Ecco la domanda: senza Arbore, Frassica sarebbe rimasto a dissiparsi in quel bar di Galati Marina attorno a un jukebox? "Lì c'era il videobox: tre canzoni cento lire. Ma nessuno può dire dove sarei arrivato senza Arbore. In quei bar del Sud i ragazzi avevano tre strade: la malavita, la politica e lo spettacolo, che era la strada più difficile. E guardi che anche a scuola io ho imparato tutto del cinema". Come? "Perché non ci andavo e passavo le mattine all'Orfeo e al Diana, due film in una volta in ciascun cinema. Li ho visti tutti, tranne quelli di guerra che non mi sono mai piaciuti".
Arbore le ha insegnato l'improvvisazione? "Arbore insegna mostrando. E improvvisatore non vuol dire impreparato e incompetente. Arbore, a casa sua, allenava gli artisti a diventare ciascuno un personaggio predefinito: io ero il bravo presentatore, Marenco il bimbo dispettoso… Poi in trasmissione ci stimolava e ci "attivava" e io andavo a orecchio: improvvisavo perché avevo studiato". Con Arbore ridevate davvero? "La serata più divertente della mia vita fu quando con Arbore e Roberto D'Agostino vedemmo il festival di Sanremo. D'Agostino è un genio del commento in diretta: se io sono il bravo presentatore lui è il perfetto telecronista".
Papà Alberto Frassica, archivista al Comune, morì nel 1974 quando Nino, a 24 anni, aveva già scelto lo spettacolo. Ma intanto era diventato ragioniere con il massimo dei voti: come mai? "Può sembrare una frassicata, ma è vero: finalmente all'istituto per ragionieri le classi erano miste e cominciai ad andare bene". Suo padre credeva nel suo talento? "A Galati Marina non ci credevano neppure quando mi videro a Domenica in: 'Guarda, Ciccina, questo qui pare il figlio di compare Alberto'. 'Ti assicuro che è lui'. 'Ma che dici? Non può essere'. E la domenica dopo: 'Hai visto che non c'è più'. Per convincere mia mamma che era tutto vero mentre facevo la pubblicità del panettone Maina le feci scaricare davanti a casa un camion di panettoni. Mamma li regalava a tutti: era la prova che eravamo diventati ricchi". Ha investito in case? "Ho investito qualcosa ma di case ho quella a Messina, e qui a Roma un appartamento al terzo piano e uno al sesto che diventerà uno studio".
Due mogli, entrambe attrici, ma non ama parlarne: "La gente non capisce nulla, taglia le vite degli altri con l'accetta". È famoso il suo rifiuto dello sport: "Direi del movimento". Anche il nuoto? "Sono nato e cresciuto di fronte al mare e dopo un po' mi è venuto a noia. Non esco in barca, nuoto da bagnante, ma quando voglio capire le cose guardare il mare mi aiuta". È credente? "Se vieta di leggere il suo giornale al pubblico di Don Matteo e di Rai Uno le dico la verità". Da ragazzo però andava a Messa. "Mia mamma mi ricattava: se non andavo a messa non mi dava i soldi per il cinema". Perché non ha figli? "Non ne volevamo. Ma mia moglie ha una splendida figlia". Frassica è un cuor contento, la conferma che non è vero che i comici sono tristi? "Macché tristi. Mi piace la vita e sono stato fortunato. Ma anche io ho le mie paure: invecchiare, stare male". Molti comici hanno paura delle interviste, temono di non essere all'altezza. "Perché sono abituati a prendere dieci e dunque già il nove li delude".
Forse alla fine il "miracolo Frassica" è davvero molto semplice. Come esistono l'umorismo british e quello ebraico e come c'è l'ironia tagliente milanese, c'è anche la risata sul disagio meridionale, le sgrammaticature della logica, i verbi sbagliati, i giochi di Totò e Peppino a Milano "ogni limite ha la sua pazienza" "oh che belle mani, son le sue?", "parli come badi", e ci sono anche Lino Banfi e Checco Zalone con i suoi uomini sessuali. Nel linguaggio storto ma vero, risarcitorio perché fieramente terrone, un posto speciale ha la comicità siciliana. Ed ecco la domanda: quando il siciliano ha cominciato a far ridere? "Si comincia da Angelo Musco che diceva di non essere stato ferito nel tafferuglio, ma sotto il ginocchio, e c'era il grandissimo Turi Ferro che faceva l'industriale del ficodindia… E poi Franchi e Ingrassia, Lando Buzzanca, Pino Caruso, sino a Ficarra e Picone, ma anche la coppia straordinaria di Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina con la scena irresistibile di 'u purtau u pani u papà?' È una scuola inesauribile di talenti. Penso e spero di avere in me un po' di ciascuno di loro".
Sul Venerdì del 15 gennaio 2021
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