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Le grandi donne che stanno dietro ai vaccini per il Covid

Dietro ogni vaccino per il Covid c’è una grande donna. Sarah Gilbert per esempio, direttrice del gruppo di Oxford, in estate ha convinto i suoi tre gemelli a sottoporsi alla sperimentazione. Ma solo dopo aver completato gli esami del semestre. A 21 anni, studenti di biochimica, loro hanno ricevuto prima buoni voti, poi il vaccino. Un po’ di merito, se fermeremo il Covid, va però anche al marito, che da giovane abbandonò la carriera di scienziato per consentire a lei di andare avanti. E lei avanti ci andò davvero, studiando per decenni vettori virali per combattere – tra l’altro – la Mers: il coronavirus mediorientale da cui Oxford è partita per mettere a punto così rapidamente il vaccino usato oggi contro il Covid.

Sarah Gilbert, guida il gruppo di Oxford

Una donna poi è alla guida di ReiThera, l’azienda di Castel Romano che lavora al vaccino italiano. Ma Antonella Folgori, biologa con studi a Roma e Strasburgo, non è sola. Solo il 30% dei circa cento scienziati che lavorano nei laboratori di ReiThera è uomo. "Devo molto a mio marito e ai miei due figli, che hanno sopportato molte assenze, mi hanno supportato nei momenti felici e soprattutto nelle difficoltà, e aiutato nelle scelte" dice oggi, al termine della fase uno della sperimentazione.

Se poi abbiamo ricevuto le prime dosi de primo vaccino di BioNTech a dieci mesi dall’apparizione del coronavirus è anche perché Katalin Karikò da trent’anni non si dava per vinta nonostante le batoste. Nata in una cittadina ungherese impronunciabile – Kisújszállás – mantenuta fra dormitori e borse di studio all’università di Szegen, ha lasciato l’Ungheria per l’America nel 1985 con il marito, una figlia di due anni (oggi campionessa olimpica di canottaggio per la squadra Usa) e mille dollari cuciti nella pancia dell’orsetto, frutto della vendita dell’auto di famiglia al mercato nero.

Katalin Karikò, vicedirettrice di BioNTech

Dal sogno americano, Karikò ha però ricevuto solo amari risvegli. Ai suoi studi sull’Rna e sulle possibili applicazioni nel campo dei vaccini nessuno ha mai creduto. Rimasta senza un posto alla Penn University in coincidenza con una diagnosi di tumore nel ‘95, per caso e solo nel 2013 è riuscita a portare i suoi brevetti all’azienda tedesca BioNTech, di cui oggi è vicedirettrice (dopo aver ricevuto anche un'offerta di lavoro da Moderna). Altro che fretta, ogni fiala iniettata oggi ha dietro di sé la storia personale, i fallimenti e poi la capacità di rialzarsi di decine di ricercatori.

“Di solito, a quel punto, la gente semplicemente dice addio e se ne va, perché è così orribile” ha raccontato Karikò alla rivista americana Stat, a proposito del suo annus horribilis 1995. “Pensavo di non essere capace, di non essere intelligente. Pensavo di andare da qualche altra parte a fare qualcos’altro”. Oggi il suo nome è stato suggerito per il Premio Nobel.

Dall’altro lato dell’Atlantico, presso il partner di BioNTech, la multinazionale Pfizer, lavora la donna che Nature ha inserito fra i dieci scienziati del 2020: Kathrin Jansen, direttrice della ricerca e dello sviluppo dei vaccini dell'azienda, già madre del vaccino contro il papillomavirus. Collegata in smartworking dall'appartamento di Manhattan con i 650 membri del suo team, ha coordinato le sperimentazioni del vaccino a Rna messo a punto da BioNTech in tempi record, da aprile a novembre.

Kathrin Jansen di Pfizer, premiata da Nature

Alla Novavax, altra ditta americana che è a buon punto nel mettere a punto un rimedio contro il Covid, troviamo Nita Patel, direttrice dello sviluppo del vaccino. Anche lei dimostra quanta strada riesca a fare la scienza, quando ci si mette tenacia. Nata nel villaggio di Sojitra, nello stato indiano del Gujarat, Patel viene da un’infanzia di miseria, con il padre menomato dalla tubercolosi quando lei aveva 4 anni. Ed è proprio a un vaccino contro questa malattia che Patel inizia a lavorare, prima di gettarsi nel turbine del Covid.

Nita Patel su Science

Fra le donne di ferro della lotta contro il coronavirus c’è poi Chen Wei, generalessa dell’Armata Rossa cinese, eroe nazionale per il suo lavoro al vaccino per Ebola. Già il 29 febbraio, un mese e mezzo dopo il sequenziamento del virus, la vediamo con la manica della divisa arrotolata per ricevere la prima iniezione di un vaccino, prodotto insieme all’azienda farmaceutica CanSino, che definire sperimentale sarebbe un eufemismo. Ma che oggi è uno dei pilastri della lotta della Cina contro il Covid.

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