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“Ho servito l’Italia come interprete, ora aiutatemi a lasciare l’Afghanistan”

La storia di Alì arriva da un buco nero della nostra guerra in Afghanistan. Alì aveva 20 anni il 22 ottobre del 2011 quando ha cominciato a lavorare come interprete per le forze militari italiane nella provincia di Herat. Oggi ne ha 28 e nel suo Paese tutto sta per cambiare: gli americani stanno riducendo il loro contingente dopo 18 anni di una guerra che non sono riusciti a vincere; il governo di Ashraf Ghani cerca una strada per la pace, ma i talebani continuano a prendere di mira giornalisti, politici, oppositori. Ali teme per la sua vita: “I talebani mi considerano una spia del nemico e molti locali un traditore”. Per un infernale meccanismo burocratico, il suo nome insieme a quello di almeno altri 30 traduttori afghani non è rientrato nel programma di protezione che l’Italia si è data con una legge del 2014 per garantire la sicurezza di ha collaborato con l’esercito italiano. A fine dicembre altri 50 interpreti afgani hanno scritto al comando italiano chiedendo di non essere abbondanti una volta che il contingente sarà ritirato. “Non siamo soldati, ma abbiamo servito come soldati. Chiediamo solo che l’Italia ci aiuti a uscire dall’Afghanistan", dice Ali al telefono da Kandahar.

Quando e dove ha lavorato come interprete per gli italiani?

"Per otto mesi a Camp Sayar, dove c’era la 2a Brigata del 207° corpo d’armata afgano, nella provincia di Farah, poi sono stato trasferito a Herat per due mesi. Le unità italiane con cui lavoravo erano la Omlt 12 (Operational Mentoring and Liaison Team) e la Mat1 (military advisory team). Eravamo stati ingaggiati da una compagnia americana, la Mission Essential Personnel, che forniva traduttori alle forze italiane, tedesche, inglesi. I talebani e i locali conoscevano il nostro nome, noi facevamo da tramite anche con lor"o.

Che cosa è successo dopo il 2012?

"La responsabilità della sicurezza è passata alle forze afgane, l’Italia ha ridotto il suo contingente e noi siamo diventati disoccupati. All’epoca il comandante Italiano ci disse che l’Italia non aveva ancora un programma di protezione per gli interpreti e che appena fosse stata approvata la legge ci avrebbero chiamati. Ma il nostro nome non è mai entrato nelle liste, perché noi avevamo lavorato alcuni anni prima della legge. Ci hanno lasciati indietro. Siamo stati tante volte all’ambasciata italiana a Kabul, ma ci dicono che non è loro responsabilità".

Quanti siete in questa condizione?

"Siamo 35 persone, alcuni sono scappati con i trafficanti in Turchia o in Europa, ma chi come me non ha i soldi è rimasto qui. Abbiamo paura delle ritorsioni, per i talebani siamo spie degli infedeli, siamo stati minacciati, siamo a rischio. Io vivo a Kandahar e non esco mai dalla città perché le strade per Kabul, per Herat, sono piene di check point talebani. Ora si stanno avvicinando anche a Kandahar, ogni notte sentiamo gli Rpg e gli spari contro le unità afgane, ho paura che un giorno o l’altro mi uccideranno, io sono anche della minoranza azara che è ancora più esposta alle ritorsioni dei talebani. Ho una moglie incinta di otto mesi".

Che cosa chiede al governo italiano?

"Che almeno ci dia la possibilità di andare in un Paese dove accolgono i rifugiati, in Canada, in Australia, ovunque".Original Article

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