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Roma, addio a Fabio Enzo: l’eroe di un derby che regalava cappotti agli emarginati

ROMA – A Roma Fabio Enzo è scolpito nella memoria di un'intera generazione: gli capitò di decidere un derby a vent'anni. Se fosse vissuto e avesse giocato in questi anni, gli avrebbero dedicato il display di un autobus, come quello sul quale la mattina del 26 maggio 2015 si lesse "Yanga-Mbiwa", l'autore del gol decisivo del 2-1 di un derby che regalò alla Roma il secondo posto in campionato. Il derby di Enzo fu quello del 23 ottobre del '66: un colpo di testa sotto la Sud per tornare alla vittoria nella stracittadina dopo 11 anni. Eroi per caso, per un giorno, un'ora, un minuto, dieci secondi. Fabio Enzo, classico viso da ragazzo ombroso, viso che esprimeva una giovinezza non completamente vissuta, forse perché frenata dalle paure di una famiglia mai riemersa dalla povertà della guerra (il padre magazziniere, la madre casalinga), è morto a 74 anni.

Era della classe del '46, l'anno di Prati (che gli diede il cambio alla Salernitana nel '65) e di Capello, con cui condivise la stanza ai tempi della Roma. Era un tipo estroso, Enzo, fuori dagli schemi: nel far cose strane era come se si riappropriasse di tutta quella libertà che non trovò mai nel dopoguerra di Cavallino Treporti, una lingua di terra fra Jesolo e Venezia, a scuola, con gli amici: fu il campo di calcio a indicargli la strada da seguire. E non era una linea retta, quella strada, era piuttosto un rettangolo all'interno del quale lasciarsi andare, sino a calciare di un rigore di tacco (quando era al Cesena), prendere il palo e beccarsi una multa dal suo presidente.

Enzo era un centravanti piuttosto rude, che pure conservava, magari gelosamente, una sua misteriosa agilità con la palla a terra (per quei tempi). Al punto che dopo aver risolto il derby si parlò di lui come un possibile centravanti del futuro, uno che avrebbe sfondato e in tutti i sensi. Non fu così: Enzo era scorbutico anche nello scegliere tempi e modi per stupire. Per qualche suo movimento, anticipò forse Chinaglia, forse Schachner. La sua carriera era cominciata a Venezia nel '63. Aveva un nemico giurato: l'arbitro. Chiunque fosse. Litigava continuamente, metteva bocca su tutto, come se il campo fosse un bar. E i toni che usava erano quasi sempre quelli sbagliati. Così accumulò 64 giornate di squalifica. La tendenza a farsi buttare fuori, sempre per aver discusso con i direttori di gara, mai per un fallo cattivo, non passò inosservata.

Il "Tifone", storico settimanale, gli dedicò una vignetta: "Signorina, venga a casa mia, le mostrerò la mia collezione di squalifiche!". Era comunista, di quelli veri, che credevano, che sentivano, cantavano (cantava "Bandiera rossa" prima di allenarsi) partecipavano e praticavano. Passò alla storia il suo gesto evangelico di regalare il cappotto a un uomo che tremava per il freddo sotto l'hotel durante una trasferta della Roma. Proveniva dalla Tevere Roma. Giocò anche con Cesena, come detto, Napoli, Verona, Novara, Foggia, Reggina, Venezia, Omegna e Biellese, sempre restando pochissimo, senza quasi mai disfare la valigia. Tornato a casa, ha provato ad allenare la squadra del suo paese. Ma non ha funzionato.

"Un tuo gol che decide il derby è qualcosa che non si può descrivere", ha scritto su Twitter la Roma per ricordarlo. Quando tornò a Roma dopo un breve passaggio al Mantova trovò tutto cambiato e soprattutto trovò un centravanti completamente diverso da lui: Fausto Landini. Che gli fece capire che il calcio stava cambiando. Non poteva sapere che Marchini avrebbe fatto cassa con Landini, Capello e Spinosi, che Landini non avrebbe praticamente mantenuto nemmeno una delle promesse fatte e che là davanti, nella Roma, si sarebbe riaperto un buco. Andò via, portandosi dietro il ricordo tenero di quel derby che riassumeva la sua vita: "Il calcio era passione di famiglia, papà giocava in paese e poi divenne presidente della società", diceva nel 2015, coi suoi baffoni e il suo intercalare dialettale in una trasmissione dell'Editoriale Unicorn, "sapete come andavano certe cose: telefona uno del Venezia che vuole parlare con mamma. Già, ma che vuole? Signora buongiorno, abbiamo dato suo figlio in prestito alla Salernitana. Arrivederci e grazie. Così è cominciata la mia vita. Con mia madre che chiede a mio padre: ma dov'è Salerno? E lui: penso che sia in Italia…".

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