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Regole per i social media, le domande che solleva il “deplatform” di Trump. E le possibili soluzioni

Dal 2016 in poi le piattaforme dei social network sono lo scenario di una nuova guerra combattuta con armi sofisticate, fabbriche di troll, potenze straniere impegnate nel tentativo di manipolare risultati elettorali e di hackerare le stesse piattaforme. Questo, prima ancora del diritto a bloccare gli account di Donald Trump, dovrebbe essere il primo argomento nell’agenda dei governi e delle istituzioni internazionali: il tema non è tanto mettere i social sotto controllo quanto metterli “in sicurezza” rispetto alle minacce della cyberwar e alle intrusioni nella privacy degli utenti da parte di governi e agenzie.

E forse l’unica strada percorribile è quella di intervenire sulle dimensioni. Il vero problema di Facebook è la quantità di dati di cui dispone, il vero rischio dell’economia digitale è quello dei monopoli. Se una regolamentazione è necessaria, va trovata in questo ambito, seguendo un percorso che ad esempio l’Unione europea ha già intrapreso, con le sue direttive e i suoi regolamenti in tema di privacy, gestione dei dati, copyright, anti-trust, terrorismo.

Chiarito questo approccio, restano sul tappeto le diverse questioni poste dal cosiddetto “deplatform” di Trump, così come lo definisce Casey Newton, esperto di Silicon Valley e autore di una seguitissima newsletter sui media digitali e le piattaforme. La cancellazione da Twitter e Facebook del presidente degli Stati Uniti va analizzata tenendo presente qual è il contesto di riferimento: i suoi comportamenti e le sue parole hanno portato tutto lo schieramento democratico del Congresso a chiederne l’impeachment in quanto ha “incitato all’insurrezione e messo in grave pericolo la sicurezza degli Stati Uniti”. Lo stesso FBI ha lanciato l’allarme per possibili rivolte armate in tutti gli Stati Uniti. Il clima nel quale i social network hanno deciso di intervenire è dunque di emergenza nazionale, come dimostra anche la cancellazione da parte di Twitter di 70 mila account sostenitori di QAnon (i complottisti fiancheggiatori di Trump) e il divieto da parte di Facebook di usare la frase “Stop the steal” (fermate il furto, riferito ai presunti e inesistenti brogli elettorali).

Siamo dunque in presenza di comportamenti ritenuti al di fuori e al di sopra della legge, di fronte ai quali i social network erano chiamati a prendere una decisione urgente, che pone molti interrogativi. Prima di giudicare se sia stata giusta o sbagliata, ci sono alcune domande da porsi.

1. Secondo un’analisi elaborata da Pierluca Santoro di Datamediahub, l’ultimo post su Facebook di Trump è stato visto 27 milioni di volte nelle poche ore in cui è rimasto online prima che la piattaforma decidesse di cancellarlo (e poi sospendere l’account). Se per assurdo in quel post – anziché giustificare le violenze in Campidoglio e dire falsità sull’esito del voto – Trump avesse diffuso contenuti pedo-pornografici, avremmo gridato alla censura o ci saremmo indignati con Facebook per non averlo rimosso prima che potesse raggiungere 27 milioni di persone (nota bene: i filtri di Facebook alimentati dall’intelligenza artificiale sono già programmati per impedire la pubblicazione di contenuti pedo-pornografici, quindi non sarebbe mai potuto accadere)? Stiamo ipotizzando che l’incitamento alla violenza e all’odio da parte del presidente degli Stati Uniti sia un comportamento meno grave o comunque più “sindacabile” rispetto ai contenuti pedopornografici? Chi, come il filosofo Massimo Cacciari in un’intervista a Repubblica, sostiene che le regole ai social network devono essere date dalla politica, a quali contenuti e a quali account si riferisce? Qual è allora la responsabilità delle piattaforme?

2. Chi rivendica il primato della politica sulle piattaforme social ci tiene a precisare che il tema non riguarda Donald Trump, ma le regole generali. Ma è davvero così? Perché se ne parla in questo modo solo ora? La verità è che un provvedimento che zittisce il presidente degli Stati Uniti d’America richiama subito alla mente l’idea della censura, senza considerare invece se il comportamento tenuto nel corso del tempo da Trump sia compatibile con la sua presenza sui social media o non si configurino abusi e reati. Il caso Trump è specifico e come tale va affrontato. Da anni il suo uso delle piattaforme social è considerato al limite – se non oltre – del lecito. Se il Congresso degli Stati Uniti ritiene illegale il suo messaggio, possono i social media ignorarne la pericolosità e non intervenire?

3. Chi oggi si scandalizza per il “potere” di Mark Zuckerberg di togliere la voce a chiunque nella piazza digitale più vasta e diffusa del mondo, fino a ieri spesso accusava Zuckerberg dell’opposto e cioè di non aver fatto nulla (o non abbastanza) proprio per togliere quella voce a chi diffondeva odio e fake news. Per anni si è gridato all’obbligo, da parte delle piattaforme, di assumersi la responsabilità rispetto ai contenuti postati dagli utenti e quando finalmente le piattaforme intervengono si grida allo scandalo e alla censura? È un atteggiamento quantomeno contraddittorio, che le stesse piattaforme hanno provocato, come spiega Alec Ross su Repubblica: dopo essere state quasi immobili per anni, hanno agito d’impulso in maniera tardiva.

4. L’obiezione, fatta propria anche da Ross, è che servano regole condivise e non autogestite per evitare arbitrio e abusi. Ma chi le deve stabilire queste regole? E non esistono già gli strumenti di tutela? Se Trump, per restare nello specifico, ritiene che i suoi diritti siano stati violati, potrà sempre rivolgersi a un giudice e ottenere – eventualmente – la riammissione. È accaduto qualcosa di simile in Italia, quando CasaPound si è rivolta alla magistratura dopo essere stata bannata da Facebook e ha vinto. Ma se accettiamo che sia il potere politico a dettare le regole, cosa accadrebbe se questo potere venisse usato – come accade nei regimi totalitari – per zittire il dissenso e l’opposizione? A chi si potrebbero rivolgere i dissidenti per vedere riconosciuti i propri diritti?

5. Questo significa che l’argomento non debba essere affrontato? Le piattaforme non devono preoccuparsi della complessità legata alla loro stessa struttura? In un’intervista rilasciata a Repubblica l’anno scorso, il vicepresidente di Facebook Nick Clegg – ex vicepremier britannico e primo caso di politico di spicco cooptato da Big Tech – ha detto due cose importanti. La prima è che i social media hanno ben presente il fatto che, quando si giudicano i contenuti e gli account dei politici, serve un surplus di prudenza proprio per evitare le accuse di censura: per questo motivo – e lo stesso Trump ne è la dimostrazione – ai politici vengono concesse deroghe e libertà sui social che non sono consentite ai privati cittadini. Il secondo punto sul quale Clegg è concorde è la necessità di trovare delle regole condivise su scala internazionale, alle quali poi tutti debbano attenersi. Anche Sree Sreenivasan, intervistato dal nostro giornale, ha ribadito che lo stesso Zuckerberg sollecita regole condivise.

6. Ma quale deve essere il perimetro di queste regole? Quali i parametri affinché siano efficaci? Da anni si dibatte sulla necessità di imporre per legge la rimozione di contenuti violenti o “fake news” (qualunque cosa questo significhi) nell’arco di 24 o 48 ore. Ma 24 o 48 ore sono un tempo infinito e inefficace se l’intento è quello di bloccare la diffusione di un contenuto virale come per esempio la rivendicazione di un attentato o una violenza in diretta. In quei casi bisogna agire in pochi secondi e infatti i social hanno già strumenti di intelligenza artificiale per filtrare i contenuti di odio e quelli terroristici. E quindi semmai il tema dovrebbe essere come funziona l’intelligenza artificiale, quali sono le possibili storture, come si fa a evitare che un nudo artistico venga etichettato e censurato come pornografico.

In conclusione, solo affrontando tutti gli aspetti di questo sistema complesso si può arrivare a una soluzione che non trasformi l’illusione utopica della pan-democrazia di Internet nella distopia del suo opposto.

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