È oltraggioso che Orson Welles o Lawrence Olivier si tingessero il volto di nero per impersonare l’Otello? O che i ballerini classici facciano lo stesso per il Moro di “Petruška”; che i ballerini neri debbano incipriarsi di bianco per “Il lago dei cigni” di Ciajkovskij? Da quando lo Staatsballet di Berlino è inciampato su un clamoroso caso di razzismo, da quando la sua prima ballerina nera, Chloè Lopes Gomes, è stata discriminata dalla sua maestra di balletto e sostanzialmente cacciata alla scadenza del contratto, il dibattito sul blackfacing o le altre prassi anacronistiche e discriminatorie nella danza classica non si è mai fermato.
Lopes Gomes era stata costretta, per “Il lago dei cigni” a coprire la sua pelle scura, e la sua maestra di balletto l’aveva mobbizzata perché non la riteneva “omogenea” con un corpo di ballo prevalentemente bianco e un’idea estetica della danza palesemente superata ma ancora potentissima, sui palcoscenici europei. Secondo Mariama Diagne, ballerina classica e storica del teatro, “in Germania è difficile trovare ballerini che non corrispondano all’ideale europeo”.
Ci sono voluti vent’anni, ricorda al Tagesspiegel, “perché le ballerine asiatiche venissero assorbite di più. Credo che prima o poi lo saranno anche le persone di origine africana. Ma resta il problema della ‘color line’. L’accettazione del corpo si basa sulla pigmentazione – e più è scura, peggio è”. Dopo lo scandalo di Lopes Gomes, lo Staatsballett ha annunciato che esaminerà il proprio repertorio per “portare alla luce modi discriminatori di mettere in scena e per interpretare diversamente le tradizioni”.
Al telefono con Repubblica, Chloè Lopes Gomes, francese di origini capoverdiane e algerine, ricorda che tanti capolavori della danza classica vengono dal periodo del colonialismo europeo, e che “il blackfacing, la prassi di tingere i volti di nero, era denigrante e caricaturizzante. Quando vado al balletto non voglio ricordarmi della schiavitù, del colonialismo, di come i bianchi vedevano i neri un secolo e mezzo fa. Il balletto dovrebbe rappresentare un mondo globalizzato e diverso. Il balletto non dovrebbe offendere nessuno”. Ed è ovvio, per lei, che si possa rinunciare senza alcun rimorso ai ballerini tutti bianchi del “Lago dei cigni” o a quelli truccati di giallo che compaiono nella “danza cinese” di un altro classico, “Lo schiaccianoci” di Ciajkovskij.
Reinterpretare i classici, filtrarne i contenuti razzisti e discriminatori o bandirli addirittura dal palco? Anche questa discussione è ormai scoppiata non solo a Berlino, ma anche a Parigi e a Vienna. La storica della danza berlinese Gabriele Brandstetter è convinta che serva una lettura al passo dei tempi dei classici, ma “senza sfociare nella ‘cancel culture’, nella rimozione”.
Al Wiener Staatsballet, il direttore di ballo Martin Schlaepfer ha fatto una scelta più radicale, bandendo dal cartellone i classici che restituiscono un’immagine degradante della donna. Alla rivista “concerti” ha spiegato di ritenere inaccettabile mettere in scena “Le Corsaire”, in cui compare un harem.
All’Opera di Parigi, il dibattito è cominciato cinque anni fa, quando l’allora direttore Benjamin Millepied denunciò il razzismo nel prestigioso corpo di ballo francese, e rivelò come gli avessero spiegato che “non si ingaggiano persone di colore nella compagnia” perché “sarebbero una distrazione”. Millepied se ne andò dopo appena un anno, non dopo aver ribattezzato “la danse de negrillon” (“la danza dei piccoli negri”) de “La Bayadère”, “danza dei bambini” e aver cancellato l’usanza dei ballerini truccati di nero.
Lo scorso autunno, una lettera di quattrocento ballerini e impiegati dell’Opera contro il razzismo ha risollevato la questione delle discriminazioni strutturali nella danza classica. Tra le richieste dello staff, quella di cancellare la parola “negro” da tutte le opere e da tutti i balletti e la richiesta che i costumi rispecchino il colore della pelle dei ballerini – a cominciare dalle scarpette. Il nuovo direttore dell’Opera, Alexander Neef, ha promesso di bandire ogni razzismo dal teatro.
Gli Stati Uniti sono avanti anni luce nell’integrazione dei ballerini di colore e afroamericani nelle compagnie di ballo. Ma anche una pioniera come Virginia Johnson ha raccontato alla Bbc che quando si diplomò negli anni Sessanta al Washington School of Ballet, la direttrice di ballo le disse “avrai una grande carriera nella danza, ma non sarai mai una ballerina classica. Il problema è il colore della tua pelle”. Johnson, che riteneva la danza sulle punte “la cosa più vicina alla sensazione di volare”, insistette, entrò nella rivoluzionaria Dance Theatre of Harlem. Quando la compagnia esordì davanti al pubblico newyorchese, il critico del New York Times, Clive Barnes scrisse “questa è la cosa più eccitante accaduta nella danza classica”. Decenni dopo, un’epifania che fatica a raggiungere l’Europa.
Commenti recenti