Prefazione
Da americano appena approdato in Inghilterra, aero convinto che Woody Woodmansey fosse un nome inventato da Tolkien, tipo Tom Bombadil. Non avevo mai sentito niente di simile. Ma Mick Ronson non faceva che elogiarlo: Woody era il suo batterista preferito e dovevamo importarlo da Hull, immediatamente.
Quando dico 'noi' intendo me e David Bowie. Qualche mese prima, io e David rimanemmo ammaliati dal modo in cui Ronson suonava la chitarra; avevamo formato una band di supporto, gli Hype, con John Cambridge alla batteria, ed era stato proprio John a suggerirci Ronson. Ironia della sorte, in quel di Hull, Woody aveva rimpiazzato Cambridge nei Rats, la band precedente di Ronson e ora, proprio per volere di Ronson, si ritrovava a rimpiazzare Cambridge, questa volta negli Hype. Il rock è un’amante crudele.
Io e David stavamo in un’enorme casa vittoriana a Beckenham, nel Kent, perciò Woody e Ronson si trasferirono da noi e dormivano su dei materassi per terra. A volte le ragazze venivano a trovarli da Hull e così diventavamo nove in tutto, con le nostre ragazze e Roger il roadie. Passavamo la maggior parte del tempo nel seminterrato, in una cantinetta dismessa, a provare arrangiamenti per le prime canzoni del nuovo album di David Bowie, che sarebbe poi diventato The Man Who Sold the World.
Mick aveva ragione su Woody: era un batterista sensazionale. Le sue mani erano schegge e si adattavano velocemente ad accostamenti assurdi tra sofisticati cambi di accordi, cambi di tempo improvvisi e canzoni strutturate come operette. Io avevo importato dagli Stati Uniti concetti come il bolero jazz (vedi la parte strumentale di All the Madmen), che Woody imparò in cinque minuti. Gli ho fatto suonare strumenti dei quali non aveva mai sentito parlare, tipo il güiro o i timpani. Diventava un mostro in tutto quello che gli davi. Meritava tutto il mio rispetto e, da bassista e produttore, sapevo bene che dovevo assolutamente guadagnarmi il suo.
Quando entrammo negli studi di registrazione Trident e Advision, nel 1970, eravamo un bel gruppetto di musicisti. Gli sfondammo il soffitto e ad album finito gongolavamo. Quel che successe in seguito verrà narrato a breve… tuttavia, nel 2014 Woody mi scrisse per chiedermi di suonare The Man Who Sold the World dal vivo, visto che ai tempi non l’avevamo mai fatto. Avevo grossi dubbi al riguardo: non sapevo mica se sarei stato capace di riprodurre quegli erculei giri di basso suonati così tanti decenni prima.
Evitai di prendere una decisione finché non ricevetti questa e-mail da Woody:
"Ciao Tony,
ho detto qualcosa di sbagliato? Hai il Mac bloccato in STANDBY? Lacune?
Woody".
Quello fu lo schiaffo morale che mi serviva. Accettai la sfida. Mentre scrivo questa prefazione, posso affermare di aver suonato The Man Who Sold the World almeno quaranta volte davanti al pubblico scatenato di Gran Bretagna, Giappone, Canada e Stati Uniti. Siamo ancora in tournèe con i nostri Glenn Gregory, James Stevenson e Paul Cuddeford e risuoneremo quel pezzo almeno altre venti volte.
Questa è la mia storia con Woody Woodmansey. Adesso lasciamo che Woody racconti la sua, quella del ragazzo che da una blues band del nord dell’Inghilterra è finito a suonare la batteria negli Spiders from Mars.
Tony Visconti
All the Madmen: Woody incontra David
“Parlo con Woody?” disse la voce nella cornetta. Risposi di sì.
“Sono David Bowie”.
“Salve”, replicai sorpreso.
“È stato Mick Ronson a darmi il tuo numero”, fece lui. “Ho una band, qui a Londra; credo tu conosca il mio batterista, John Cambridge?”.
“Certo che lo conosco”, affermai.
“Ecco, John sta lasciando il gruppo”, continuò. “Mick dice che sei un batterista formidabile e che ci troveremmo bene insieme, sia musicalmente che a livello umano, perciò ci piacerebbe se venissi a Londra a suonare con noi. Non c’è nessuna audizione, se vuoi il posto è tuo e ho anche un casa a disposizione. Al basso abbiamo Tony Visconti, che ci fa anche da produttore”.
Sembrava molto cortese e Mick si era preso la briga di raccomandarmi, non potevo fare la figura del cafone. Così gli risposi: “Mi sembra un’ottima idea, David, devo solo organizzare un paio di cose”.
Voleva una risposta chiara, perciò gli dissi che l’avrei richiamato il lunedì successivo.
Oggigiorno può sembrare inverosimile, ma agli inizi degli anni Settanta Bowie sembrava una meraviglia effimera. Il singolo Space Oddity, era arrivato fino al quinto posto, ma aveva fatto un saliscendi nelle classifiche, e il successivo, The Prettiest Star, era stato un fiasco. Il suo primo album, David Bowie, era uscito nel 1967 e includeva brani eccentrici come The Laughing Gnome e Love You Till Tuesday. Fu un vero fallimento così come il secondo album, anch’esso stranamente intitolato David Bowie, che uscì nell’autunno del 1969. Non che l’avessi mai ascoltato. In quegli anni sentivo gruppi della pasta dei Led Zeppelin e dei Cream, mentre Bowie aveva avuto influenze completamente diverse. I miei amici però ignoravano la sua esistenza.
D’altro canto, il gruppo di Bowie, gli Hype, era composto da gente in gamba e la cosa mi attirava. I quattro musicisti avevano fatto strada, ma non molta: una serata al John Peel Show il 5 febbraio e qualche concerto in giro per Londra. Uno di questi concerti fu parecchio anomalo, perché si vestirono tutti da supereroi. David Bowie era Rainbowman, Tony Visconti era Hypeman, Mick Ronson era Gangsterman e John Cambridge era Cowboyman. Pregno di teatralità, quel concerto è considerato ancora uno degli eventi promotori della scena glam britannica. La cosa più importante in assoluto era che io e Mick eravamo come fratelli. Avevamo girato l’Inghilterra in lungo e in largo coi Rats e quando passi tanto tempo con qualcuno in un furgone, arrivi a conoscerti a fondo. Eravamo piuttosto intimi. Non era il santo che è diventato dopo esser morto, nel 1993, ma era un brav’uomo e mi fidavo di lui, quindi se pensava che Bowie avesse del potenziale, ci credevo.
Restava il fatto che dovevo trasferirmi a Londra e l’idea non mi faceva affatto impazzire. Era un bel passo da giganti, cambiare città e incontrare gente nuova, inseguendo una carriera nel quale avevo poca esperienza, a parte i due anni in una band semiprofessionista. Ma era una cosa che dovevo fare. Al giorno d’oggi si può vivere a Manchester, tanto per fare un esempio, e far comunque parte di una band da urlo, ma all’epoca non era possibile. Se volevi avere successo col rock dovevi andare a Londra, proprio come avevano fatto i Beatles qualche anno prima. Se volevi davvero entrarci, la porta del successo sulla scena rock era dischiusa, ma non potevi accedervi da Hull e i Rats non sarebbero mai diventati così famosi. Non avevamo gli agganci giusti, anzi, non avevamo alcun tipo di aggancio.
Il problema era che mi avevano offerto un ottimo lavoro che poteva garantirmi una vita comoda e certe offerte non capitavano spesso nel mio angolo di mondo, non a vent’anni. Il posto alla Vertex (una fabbrica di occhiali, ndr) non sembrerà così figo a chi legge queste righe, quaranticinque anni dopo, ma mi avrebbe concesso gli agi che sognavano i miei genitori. Ci lavoravano tutti i miei amici e mi piaceva pure. Rimasi seduto sul divano tutto venerdì e sabato, a considerare pro e contro, senza capire cosa fare. La tivù era accesa, ma non la guardavo. Sapevo che i miei non volevano rifiutassi il posto alla Vertex e sapevo anche che June (la sua fidanzata e futura moglie, ndr) e gli amici non avrebbero voluto che lasciassi Driffield. Fantasticavo sulla vita che avrei vissuto se avessi scelto una strada o l’altra. Non mi raccapezzavo. Restai seduto per ore, confuso e intorpidito. Mick sapeva della telefonata di Bowie e mi chiamò per capire cosa pensassi dell’offerta, il che non aiutò. “Suvvia, Woods”, esortava, “ci divertiremo e David è un ottimo cantautore. è pure bravo come frontman e non faremo mai un cazzo se restiamo a Hull. Ha una casa immensa a Londra. Ti piacerà”.
Dopo la telefonata, rimasi a fissare la tivù. Immaginai di avere sessantacinque anni e di essere vicino alla pensione, circondato dai miei nipoti. Ero appena tornato dalla solita vacanza. Non c’erano problemi di soldi, avevamo una bella cosa e tutto era perfetto. Poi in tivù comparve una band; non sapevo chi fossero, ma andavano a braccetto con la scena che mi stavo immaginando. Parlavo ai miei nipoti, indicando la televisione, “quando avevo vent’anni, avrei potuto essere uno di loro!”, e tutto si fermò. Spalancai gli occhi, consapevole della verità. Se avessi accettato il posto in fabbrica, ci sarei rimasto in eterno e mi sarei guardato indietro con rammarico. Avrei rinunciato alla sola occasione di diventare un musicista, che era l’unica cosa che volevo davvero fare. Non volevo mica lavorare in fabbrica per tutta la vita. Realizzai che anche se fossi tornato dall’esperienza con Bowie e fossi diventato un barbone, e tutti gli amici e i familiari mi avessero detto “segaiolo, te l’avevamo detto di non andarci!”, avrei potuto comunque presentargli un bel dito medio e dire, “vaffanculo, io almeno ci ho provato”. E questo è quanto.
La domenica mattina chiamai Bowie: “Ci sto. Devo dare una settimana di preavviso, dopodichè posso venire quando volete”.
“Ottimo. Ci vediamo a una settimana da lunedì. Puoi venire con Mick, è a Hull”.
Il giorno dopo andai in fabbrica per dire al mio capo che rifiutavo il posto e che mi stavo trasferendo. Ovviamente, pensò che fossi un idiota.
“E così diventerai una pop star?”.
Mi stava prendendo per culo, quindi evitai di rispondere. Tra l’altro, potevo capire il suo punto di vista. Nessuno lasciava una città agricola come Driffield e diventava una rockstar. Non l’aveva mai fatto nessuno e non c’era motivo perché qualcuno lo facesse. La reputava un’opzione irrealizzabile. La rezione dei miei genitori fu addirittura peggiore. Diedero di matto. Mia madre scoppiò a piangere e mio padre iniziò a strillare, “sei impazzito! Ti hanno offerto un posto da caposquadra alla Vertex!”. “Penso davvero che questa volta andrà bene, papà”, dissi mollemente. Sapevo che non l’avrei mai convinto. Ero chiaramente teso su come avrebbero potuto reagire, ma in fondo me l’aspettavo perché, come ho già detto, quando si trattava di musica non avevo ricevuto altro che reazioni negative da parte dei miei genitori. “Voglio proprio vedere quanto dura questa band!” urlò mio padre e se ne andò.
Non posso certo biasimarlo, ma ero convinto che fosse la cosa giusta da fare, a prescindere da come sarebbe andata a finire. Una cosa di cui sono sempre stato convinto è che bisogna saper accettare le vittorie e le sconfitte con lo stesso spirito. Se vinci, bene; se perdi, fatti capace. Ti ripeti “questa volta è andata male” e vai avanti per la tua. Non sapevo se mi sarebbe andata bene con la band di Bowie. La sua musica non mi piaceva particolarmente e non sapevo se avesse davvero talento. Ma sapevo che dovevo andare a Londra se volevo diventare un musicista. Da parte mia v’era tanta fiducia cieca. Sotto vari aspetti, il calcolo delle probabilità non era per niente favorevole. Ero un ragazzo normale di un paesino di campagna di un angolo tradizionalista del mondo, coi genitori che volevano trovassi un lavoro decente e in un’era in cui la musica rock non era certo una carriera plausibile.
Neanche i miei amici volevano che mi trasferissi a Londra, perché eravamo una comitiva molto unita. Quando lo dissi a June, non seppe bene come reagire, non sapendo se sarei stato lontano a lungo. Era l’unica a comprendere cosa volessi davvero e in passato avevamo parlato più volte della possibilità di lasciare la nostra cittadina, un giorno, e di trasferirci a Londra per far carriera. E sebbene quel giorno fosse arrivato prima di quanto avessimo previsto, capì che era la cosa giusta da fare. Partii una settimana dopo, in un piovoso lunedì del marzo del 1970. Prima di allora, ero stato Londra solo un paio di volte, di passaggio, una volta in gita e un’altra per un’audizione finita male; non conoscevo affatto la città. Fui sradicato dal mio paese natale e trapiantato in un ambiente completamente nuovo. Ero fortunato che Mick viaggiasse con me, avendo passato il weekend a Hull. Presi il treno da Driffield a Hull e lo incontrai in stazione, dove partimmo direttamente per Londra. Bowie aveva mandato un roadie a prendere la mia batteria da Driffield e la cosa mi sembrava di gran lusso. Sul treno chiesi a Mick che tipo di musica avremmo suonato. Disse che era una specie di folk e che Bowie era un ottimo frontman; niente di più. Neanche lui immaginava quel che Bowie avesse in mente. “Però è un bravo ragazzo, Woods”, mi rassicurò, “dormiremo su dei materassi sistemati su un pianerottolo, ma a te non dispiace, vero?”.
Arrivati a Londra, Mick doveva incontrare qualcuno e mi avrebbe raggiunto il giorno dopo, perciò ci andai da solo a Beckenham, la periferia in cui viveva Bowie. Era proprio una bella zona di Londra; in realtà, non sembrava affatto di essere a Londra. Le strade erano pulite e alberate, le case ampie e distinte; e per quanto non fosse assolutamente ricca come Chelsea o Kensington, era indubbiamente una bella parte di mondo. Ricordo il tragitto a piedi, con le due borse cariche di tutti i miei averi, verso Huddon Hall, una gigantesca casa vittoriana al 42 di Southend Road. Ero inspiegabilmente teso quando bussai alla porta. Non potrò mai dimenticare l’aspetto che aveva Bowie quando venne ad aprire. Capelli ricci, castano chiaro e lunghi fino alle spalle e con addosso una maglietta color arcobaleno, una collana, dei bracciali, pantaloni aderenti di velluto, rossi e a costine, chiusi da una cintura sbriluccicante; simil-mocassini blu decorati da stelle rosse, che aveva dipinto con la bomboletta. “Wow, sembra davvero una rockstar”, pensai. Per parte mia, avevo capelli ricci lunghi fino a metà schiena, una camicia di jeans, un gilet tinteggiato in rosa, jeans strappati e mocassini. Era un look rock progressive.
“Piacere di conoscerti”, mi disse, “Sei stato gentile a venire”.
Mi invitò in casa, chiedendomi come fosse andato il viaggio e altre stronzate e formalità. Poi ci sedemmo in salotto e iniziammo subito a parlare di musica.
“Sto scrivendo pezzi per un nuovo album”, mi disse. “Hai mai ascoltato i miei dischi?”.
Risposi di no, cercando di nascondere che non avessi un’opinione alta sulle cose che aveva creato finora.
“Probabilmente, la musica sarà un po’ diversa a ‘sto giro”, continuò, forse presagendo i miei pensieri. “Sarà Tony Visconti a produrre il nuovo album e ha già delle idee geniali”.
Percepivo un’atmosfera rilassata e Bowie era brillante e sicuro di sé. In quella primissima chiacchierata sul divano, mi scoprii a studiarlo e in realtà anche lui faceva lo stesso. Volevo sapere di cosa fosse capace, musicalmente, perché avevo percorso chilometri e mi serviva che fosse bravo.
“Che direzione pensi di intraprendere con queste nuove canzoni?”, chiesi.
“Ancora non lo so”, rispose, “ma so che devono essere diverse dai miei vecchi pezzi, più forti. Voglio essere d’impatto e ho bisogno di cambiare rotta”.
Poi mi suonò alcune vecchie canzoni su una chitarra acustica e, con mio gran sollievo, la sua voce mi piaceva. Era differente da quello che avevo sentito finora, molto più chiara e inglese. Era palese che fosse stato influenzato dal cantante Anthony Newley e, per quanto non fossi un gran fan di Newley, la voce di Bowie mi attirava perché era pulita. Ero abituato ai lamenti blues dei cantanti heavy rock (Robert Plant, Paul Rogers e così dicendo), ma Bowie non aveva affatto quel genere di voce. Il suo approccio era totalmente diverso: cantando trasmetteva emozioni, quanto bastava per farti capire quel che gli passava per la testa e io lo capii al volo. Riusciva a raggiungere note alte e anche a tenerle e non stonava mai. In tutti gli anni in cui abbiamo suonato insieme, non l’ho mai sentito steccare.
Con mia gran sorpresa, mi trovai a pensare “cazzo, belli 'sti pezzi”, nonostante prima d’allora li avessi considerati troppo leggeri per i miei gusti. Mi piaceva soprattutto Wild Eyed Boy from Freecloud, che era il lato B di Space Oddity. Forse mi ero sbagliato sul suo conto (devo ammettere che, col tempo, ho iniziato ad apprezzare anche Space Oddity). Poi mi suonò i suoi due album. Alcuni pezzi erano troppo 'innovativi' per i miei gusti, ma in altri si avvertiva una certa profondità. Il punto di vista dal quale partivano era pressochè unico, anche allora. Solo lui avrebbe potuto creare quella roba. Non avevo sentito mai niente di simile prima di allora, ero ammaliato. La cosa importante era che sapesse scrivere. Mi serviva che fosse un buon paroliere. Su nello Yorkshire, coi Rats, avevamo provato a creare canzoni nostre, ma non ne avevamo le capacità e fallimmo miseramente, per quanto fossimo ottimi musicisti. In cuor mio, avevo una lista di quel che mi serviva da Bowie: doveva saper scrivere ed essere sicuro di sé, ed era evidente che lo fosse, anche solo a guardarlo suonare la chitarra seduto sul divano. Il significato di quelle canzoni non era chiaro, ma non mi importava; la cosa fondamentale era che, quando finiva di suonare uno dei suoi pezzi, in testa mi si era dipinta tutta una storia. Una storia che mi pareva vera e che mi faceva viaggiare. è quello il compito delle belle canzoni e, secondo me, il segno distintivo di un buon paroliere.
Dopo aver parlato per più di un’ora, comparve una bella bionda, mi venne incontro e disse “ciao, sono Angie Bowie. Sono la moglie di David e sono lesbica”.
“Oh… piacere di conoscerti. Io sono Woody”, balbettai.
Non riuscivo a guardarla negli occhi. Sapevo cosa fosse una lesbica, ma non avevo mai parlato con una di loro e non sapevo come gestire un’informazione del genere. Non ero omofobico, solo confuso. Mi sembrava una cosa strana da dire a qualcuno la prima volta che ci parli e poi, perché si erano sposati se lei era lesbica. Mi serviva un po’ di tempo per pensarci su!. Angie era particolare: chiassosa e vivace, con l’accento americano, sempre a muovere mani e corpo. Aveva vent’anni e scoprii in un secondo tempo che era nata a Cipro da genitori americani e aveva studiato a Kingston Poly, dove incontrò Bowie. Mentre io e Bowie parlavamo, quella sera, lei entrava e usciva dalla stanza come una zanzara in velocità, interrompendo ogni nostra conversazione. Se le piaceva quel che sentiva, scagliava la sua opinione, fragorosa e indesiderata. In quelle circostanze, Bowie la guardava con affetto. Si erano sposati poco prima che andassi a vivere con loro e sembravano molto innamorati. Si baciavano e si accarezzavano, spesso e appassionatamente.
La mia prima sera con Bowie fu sensazionale. Nonostante avesse solo ventitrè anni, il che sembrerà una giovane età, oggigiorno, pareva sofisticato e sicuro di sè. Alle volte, era cordiale e caloroso, come uno dei miei amici dello Yorkshire: ci potevi scherzare e parlare del Circo volante dei Monty Python, che era uscito in tivù alcuni mesi prima. Proprio come me, adorava quel surreale senso dell’umorismo dei Monty Python.
“E come si chiama la tua splendida moglia” diceva, citando uno sketch del Consulente matrimoniale.
“Deirdre!” rispondevo io, con voce acuta e smorfiosa.
“Deirdre…”, continuava lui, lascivamente. “Ma che bel nome!” e proseguivamo così.
Allo stesso tempo, anche quando stavamo scherzando, notavo un certo distacco da parte sua. Bowie pareva un artista in divenire: sembrava perso nei suoi progetti, anche mentre parlava e ti guardava dritto negli occhi. Quando si verificava, non potevi non avvertire una certa distanza da parte sua. Parlando, fu evidente che quando la sua carriera non era decollata dopo Space Oddity, Bowie ci era rimasto male e ora aveva difficoltà a trovare una nuova modalità di espressione. Per quanto avesse già pubblicato un certo numero di dischi, stava attraversando un periodo di profondi cambiamenti. C’era una scritta fatta a mano sulle pareti di Haddon Hall. Leggeva 'non conforme, bensì radicale', col nome Ken Pitt (che sarebbe diventato presto il suo vecchio manager) scritto in corrispondenza della parola 'conforme', a caratteri cubitali, e la parola 'radicale' seguita da 'ribelle', in una calligrafia diversa e più impetuosa. Questo, perlomeno a certi livelli, può riassumere il periodo di confusione che stava attraversando quando mi unii alla band.
Tony Visconti ci raggiunse sul tardi, accompagnato dalla sua ragazza di allora, Liz Hartley, e mi piacque subito. Aveva ventisei anni, quindi un po’ più grande di noialtri. Era un musicista e produttore di New York, trasferitosi a Londra nel 1968 e che aveva avuto un certo successo lavorando con Georgie Fame, Procol Harum, i Moody Blues, i Move e i Tyrannosaurus Rex, la band di Marc Bolan. Nel 1969 gli fu chiesto di produrre il secondo album di Bowie e fu amore a prima vista. Sapevo che avesse lavorato con un sacco di artisti di successo e quando tutti e cinque ci sedemmo a cenare, gli chiesi cosa avesse in mente per il nuovo album di Bowie.
“Lavoreremo alle canzoni nei prossimi mesi”, disse Visconti. “Hai già visto la sala prove? No? Ti ci porto dopo cena”.
Visconti era sereno, sicuro di sè e piuttosto ottimista, nello stile tipico degli americani, perlomeno rispetto a noi cauti britannici. La sua presenza mi convinse di aver fatto un vero salto in avanti, a livello professionale, venendo fin qui a suonare nella band di Bowie. Quel che adoravo di lui era che capiva perfettamente il senso dell’umorismo inglese, cosa alquanto anomala all’epoca, per chi veniva da fuori. Riusciva a partecipare a conversazioni sui Monty Python o i Goons alla stregua di tutti noi.
Dopo cena Bowie mi mostrò il resto della casa. Haddon Hall era divisa in otto appartamenti. Lui aveva affittato quasi tutto il piano di sotto e l’entrata principale dava direttamente sul suo appartamento, dando l’impressione che godesse dell’intero palazzo, cosa che sfruttava durante i servizi fotografici e i video. Entravi dalla porta principale e a sinistra c’era il cucinotto, un bagno sulla destra e il soggiorno principale di fronte. Dall’altro lato della stanza, una scala immensa portava a una finestra di vetro temperato, sul pianerottolo, dove inizialmente c’erano le porte degli altri appartamenti. Sembrava l’immensa scalinata di Tara in Via col Vento. Al piano di sopra, dall’altra parte della ringhiera, c’era una porzione dove io e Mick condividevamo un materasso. Al piano di sotto c’erano la stanza di Tony e Liz, quella di Bowie e Angie e un salotto. L’altro inquilino era Roger Fry, l’australiano che gli faceva da autista e roadie. Dormiva su un materasso nel sottoscala.
La casa aveva pochissimi mobili, forse perché i Bowie, Visconti e Liz vi si erano trasferiti solo il dicembre precedente. Non c’era altro che una cassapanca all’ingresso e un letto e delle cassettiere nella stanza di Bowie, che aveva dipinto il soffitto color argento. Aveva anche comprato tavolo e sedie in stile antico, che aveva dipinto di rosso, aggiungendo dell’oro nei dettagli intagliati. La prima volta che ci sedemmo a cenare a quel tavolo, mi sembrò un’opera d’arte. Questa sarebbe stata casa mia per i prossimi diciotto mesi.
L’amministrazione domestica era semplice. Mick e io venivamo pogati sette sterline a testa a settimana. Era Angie a occuparsi di pagare me, Mick e Tony. Bowie pagava l’affitto e tutti insieme facevamo colletta per il cibo. Sembrava una comune hippie e a me andava più che bene: lo stile progressivo coincideva col mio umore del momento.
Bowie non sembrava affatto un tipo ricco. Prendeva i diritti di Space Oddity, quindi gli entravano un po’ di soldi, ma non molti, a quanto pareva. Allo stato attuale, non firmai nessun contratto; il nostro fu un accordo verbale. I soldi non mi interessavano finchè avevo una casa, abiti e cibo; le cose basilari. Mi bastava essere un musicista professionista, a Londra, con l’opportunità di fare successo. Bowie e Angie erano chiaramente abituati a uno stile di vita più lussuoso di quello mio e di Mick, soprattutto quando si trattava di cibo. La cosa iniziò a diventare irritante dopo qualche settimana dal mio arrivo. Mettevamo i soldi nella colletta e loro li spendevano tutto in un pasto solo, lasciandoci senza un cazzo per il resto della settimana. Compravano cibi costosi, a volte appunto il giusto per un pasto, e poi quando chiedevamo dove fossero le patate, non ce n’erano, perché non ci avevano pensato. Col senno di poi, ammetto che non fossero bravi a occuparsi della casa.
Quando il cibo finiva, Angie si lamentava: “Non compri più niente coi soldi, al giorno d’oggi”.
“E già. Non c’è neanche una patata!” le rispondevo.
Mangiavamo pane tostato e qualunque cosa riuscissimo a racimolare; nessuno moriva di fame, ma quando ci sono cinque bocche da sfamare in una casa, i litigi sono inevitabili. Un giorno, io, Tony, Mick litigammo di brutto con Bowie e Angie e finimmo col dire “lo compriamo noi il cazzo di cibo!”. Ma poi Angie provava a cucinare quelle cose e le bruciava. Era una cuoca di merda; forse era per questo che Bowie era così magro. Non cucinava mai e mangiava di rado. Dopo qualche tempo, io e Mick decidemmo di cucinare solo per noi e di non curarci di loro. Ma niente di tutto ciò importava granché, perché avevamo della musica da creare. I piani di Bowie di registrare un disco e di fare un tour subito dopo erano semplici, ma raggiungibili. Per il nuovo album, aveva un accordo con la Vertigo, casa discografica di rock progressivo, e Tony avrebbe suonato il basso e si sarebbe occupato della produzione. Vertigo pareva la scelta ottimale: l’etichetta, sussidiaria di Phonogram, era stata creata l’anno precedente e aveva pubblicato dischi di Rod Stewart e Manfred Mann. Tutti album che sconfinavano di genere e noi avevamo grandi speranze per il nuovo lp.
Appena Bowie scriveva un pezzo nuovo, lo provavamo nella cantina di Haddon Hall. Io, Tony e Mick trasformammo la cantina in una sala prove insonorizzata. Costruimmo una struttura di legno tra il soffitto e le pareti, che poi coprimmo con una tavola insonorizzante fatta di compensato. L’intercapedine tra le pareti e la tavola fu riempita di sabbia. Per fortuna era compatta, perché suonavamo musica a volumi assordanti. La stanza era piccolina, larga quanto la mia batteria e lunga forse tre batterie. Era buia e puzzava di umido, come tutte le cantine, ma a noi non importava, perché adoravamo stare là sotto. Passavamo un sacco di tempo a suonare diversi generi di musica, giusto per provare. Si stava bene. Mi piaceva un sacco l’atmosfera che io, Bowie, Mick e Tony avevamo creato. Musicalmente eravamo davvero in contatto e quando Bowie non c’era, noi tre ci perdevamo in lunghe sessioni di improvvisazione che potevano durare all’infinito. Noi tre musicisti di supporto eravamo similmente bravi nel nostro mestiere e Bowie non ci dava alcun tipo di istruzione, se non cose tipo, “Qui ci sono tre battute di questo e poi viene questa parte; la batteria entra qui” e cose del genere. Imparavamo gli arrangiamenti ed eravamo pronti.
Raramente Bowie diceva che gli piaceva il ritmo che stavo suonando, o il groove, ma se lo aspettava che fossi bravo, perciò di solito non commentava. Era indubbiamente il leader del gruppo, ma non ci diceva cosa fare; non so se mi spiego. Lasciava che ci muovessimo da soli: si aspettava che capissimo cosa servisse di preciso a rendere i brani eccellenti. In fondo, se non ne fossimo stati capaci non saremmo mai entrati nella band.
Bowie e Tony sapevano il fatto loro, ma provando mi convinsi ulteriormente che Mick poteva suonare fondamentalmente tutto, alla chitarra. Quell’uomo era un genio. Quando sunava un pezzo di Jeff Beck, per esempio, non si limitava a imitare lo stile di Jeff; lo suonava esattamente come lui. E lo stesso valeva coi pezzi di Jimi Hendrix o Paul Kossoff dei Free, o con qualunque altra parte di chitarra decidesse di suonare; all’epoca Mick Ronson non aveva uno stile suo, perché riusciva a suonare tutto. Era perfetto a imitare ogni stile e aveva acquisito una certa reputazione al riguardo.
Non vorei sembrare presuntuoso, ma anch’io ero così: sapevo suonare ogni cosa che Ginger Baker faceva sui pezzi dei Cream, perché era uno dei miei idoli e avevo imparato quelle parti fin nei minimi dettagli. La gente veniva a dirmi: “Amico, a occhi chiusi avrei giurato di essere a un concerto dei Cream, suoni come Ginger”. Era un complimento, ovviamente, ma col passare del tempo mi venne voglia di conquistare una sonorità mia, e lo stesso valse per Mick, e lavorammo duro per raggiungere lo scopo.
A volte, durante le prove, Bowie ci diceva: “Basta, prendiamoci una pausa e andiamo al club”, offerta che accettavamo di buon grado. Ci portava a El Sombrero, al 142 di Kensington High Street. La prima volta che io, Mick, Bowie e Angie ci andammo, rimasi senza fiato. Aveva una pista da ballo illuminata e a forma di stella, e la musica era sensazionale: soul, vecchio rythm 'n' blues e rock. Il posto era pieno di gente splendida, vestita di tutto punto, e le donne erano meravigliose. Io e Mick non potevamo immaginare che esistessero posti del genere.
Stavamo bevendo una birra, quando a un certo punto un tipo si avvicinò per passarmi un biglietto.
“Cos’è?”, chiese Mick.
“Sicuramente un messaggio che una tipa gli ha chiesto di passarmi”, risposi vantandomi. Ormai le ragazze mi riempivano di sguardi, dato che suonavo in una band. Poi si avvicinò un tipo per dare un biglietto a Mick e un altro ancora me ne mise uno in tasca. Continuavano ad arrivare, finché non raggiungemmo qualcosa come dieci biglietti a testa. Ci sembrava da cafoni aprirli lì al bancone, qundi ci spostammo in un angolo buio a leggerli. C’erano scritte cose cose tipo: “Sono al bar vicino alla bionda, se ti va di passare. Mi chiamo John e penso che tu sia fighissimo”. “Ma sono tutti maschi!”, disse Mick. Eravamo senza parole, convinti che quei tipi stessero facendo un favore alla marea di belle ragazze che giravano nel club.
Angie si avvicinò. “Che succeda?” chiese. Glielo dicemmo e lei iniziò a ridere.
“Non sapevate di essere in un gay club?” domandò.
“No!”. Che delusione. Comunque, il posto era denso di stile e creatività, sia a livello musicale che di vestiario. Il club attraeva gente piuttosto artistica.
La vita scorreva in modo piuttosto civile a Haddon Hall. Le dissolutezze giunsero quando andammo in America, nel 1972. Non ho mai visto Bowie usare droghe o tantomeno bere. A volte prendeva una birra, ma niente di più. Anche noi non eravamo da meno. Come ho già detto, Mick era figlio di mormoni e quando lo incontrai la prima volta a Hull non beveva, non fumava e non toccava neanche tè o caffè. A Londra, però, le cose iniziarono a cambiare: un fine settimana lo vidi che si rullava una sigaretta e beveva caffè. Senza che me ne accorgessi, provò la birra. Più in là iniziammo a fumare erba, ma niente di più. Sapevamo dell’esistenza di droghe come la cocaina e anche che un sacco di musicisti rock le usassero, ma sembravano lontane anni luce da noi e non avevamo affatto intenzione di introdurle nella nostra vita. Le sigarette, però, le fumavamo tutti. Mick mi svegliava spesso nel cuore della notte: “Woods! Sei svegliò Vuoi una sigarettà”. Era l’ultima cosa che volessi, perciò fingevo di dormire, ma lui non la smetteva finché non mi tiravo su, fumavamo una sigaretta, bevevamo un tè e chiacchieravamo sui nostri progetti per il futuro.
Finalmente iniziarono ad arrivare anche i concerti, parecchio più tardi di quanto mi aspettassi, avendo già fatto molti live coi Rats e coi Roadriunner molto prima di allora. Nel 1970, non ci fu un vero e proprio tour, ma io e Bowie facemmo un sacco di serate nei pub, più per divertirci che per altro. Non venivo pagato; vivevo sempre della mia rendita di sette sterline a settimana, ma non mi importava. A volte Bowie mi chiamava dal piano di sotto, “Woody, stasera suoniamo al Three Tuns”.
Il Three Tuns era un pub su Beckenham High Street. nel 1969, Bowie e la fidanzata dell’epoca, Mary Finnigan, avevano organizzato un folk club di breve durata che si riuniva la domenica sera, e poi lo trasformarono in un laboratorio artistico. Era ispirato al Laboratorio Artistico di Drury Lane, dove potevi assistere a ogni forma di rappresentazione avanguardista, incluso il mimo. Ci preparavamo poco per quei concerti. Non sapevo neanche cosa avremmo suonato, perché non avevamo ancora dei pezzi finiti, ma recuperavo una stuoia di pelle di capra e saltavamo in macchina. Una volta al pub, mi sedevo sulla stuoia e suonavo i bonghi, improvvisando alla grande, mentre Bowie suonava la chitarra acustica e cantava. Mick veniva con un basso che si faceva prestare da Tony. Più spesso però eravamo solo io e Bowie. A volte facevamo due o tre di questi concerti a sera.
Ogni sera, Bowie ripeteva la stessa frase: “Abbiamo rubato l’idea della stuoia a Marc Bolan!”, perché anche Mickery Finn, il percussionista di Bolan, sedeva sulla pelle di capra accanto al suo capo. Una sera la dimenticai a un concerto e quando Bowie, la volta successiva, fece la sua battuta, io ero lì senza pelle di capra, che sembravo un idiota. Bowie era fantastico in quelle serate, suonava la sua chitarra acustica e leggeva passi di poesie, ma quando mi unii a lui quel progetto non aveva una vera identità. Era solo uno che sapeva cantare, scrivere e stare sul palco, ma per come la vedevo io, non sembrava potesse interessare milioni di persone. Dopo qualche settimana a suonare con lui, iniziai a comprendere più chiaramente il suo punto di vista sulla musica. Non ritraeva minimamente lo sterotipo del musicista rock. Molti musicisti, ad esempio, sanno improvvisare; lui, o non sapeva farlo o non gli piaceva. Era un ottimo chitarrista, però, e incredibile ad accostare accordi inusuali; oggigiorno, ci sono chitarristi che quando ascoltano i suoi pezzi, dicono “ma che cazzo sta suonando?”.
Bowie non era semplicemente un musicista talentuoso: sapeva cantare, recitare, mimare, dipingere, arredare… aveva talmente tante qualità che, all’inizio, gli fu difficile raccogliere le idee e scegliere la strada giusta. Spesso si esprimeva in dialetti diversi; a volte con noi usava quello dello Yorkshire, ma non per prenderci per culo. E parlava con la calata australiana con gli australiani. Nessuno l’ha mai rimproverato; era fatto così. Non poteva farne a meno, sembrava interpretare personaggi diversi. Era così con tutto: vedeva una cosa che gli piaceva e la provava. Era capace di vestire un personaggio, tipo Neil Young o chicchessia, e scrivere canzoni in quello stile meglio dell’originale, e riusciva comunque a rimanere autentico e spontaneo.
Dopo un po’ divenne evidente che, per quanto Bowie non avesse ancora deciso che strada intraprendere, avrebbe sicuramente avuto successo nel mondo della musica. Si comportava come una star e lo sembrava pure, si esprimeva anche come una star, per quanto restasse comunque una persona alla mano. Sembra assurdo, lo so, ma mi sembrava un personaggio alla Marilyn Monroe o James Dean. Era molto più che una rockstar; non era come Paul Rodgers, Robert Plant, Roger Daltrey o nessuna dei grandi coi quali ero cresciuto. Non rientrava in quello stereotipo in nessun modo. Le sue canzoni erano completamente diverse ed erano buone, molto buone.
Presto capii che Angie era un ottimo catalizzatore quando si trattava di far decidere qualcosa a Bowie. Lo spingeva in direzioni che credeva lui dovesse percorrere e lui, ovviamente, aveva pieno rispetto per la sua opinione. Le influenze di Bowie erano chiare; alcuni brani avevano un sapore inizio anni Sessanta, ma quando ti soffermavi a pensarci, capivi che non era affatto sbagliato dare al pubblico cose alle quali era abituato. Aveva la capacità di copiare gli altri e di essere comunque originale. È così che deve agire un artista. In seguito, per presentare le proprie canzoni, si ispirò alla moda, al teatro e a tutto quello che aveva incontrato lungo il percorso.
L’occasione per fare il salto di qualità arrivò quando registrammo il primo album insieme. The Man Who Sold the World fu creato negli studi di registrazione Trident e Advision, a Londra, tra l’aprile e il maggio del 1970. Ci sono testimonianze contraddittorie sul modo in cui vennero creati i pezzi, quindi ne approfitto per dissipare la nebbia. Bowie scrisse tutte le canzoni, ma noi tre musicisti, io, Mick e Tony, creammo la maggior parte degli arrangiamenti. Alcuni pezzi non erano che una sequenza di accordi quando Bowie ce li presentò. Diceva “Questa è la strofa” e “questo è il ritornello” e “magari questo lo facciamo nelle battute centrali” e via discorrendo, e noi prendevamo quel che Bowie aveva creato su una chitarra acustica a dodici corde e lo adattavamo per un gruppo rock, provando nella cantina di Haddon Hall. Negli album che seguirono le cose andarono diversamente: Bowie ci portava brani quasi completamente finiti, con almeno una sequenza di versi, ritornello, battute centrali e così via. In The Man Who Sold the World, le strutture di base delle singole sezioni c’erano tutte, ma non sempre combaciavano, lavoro che spettava a Tony e Mick. Durante la registrazione di The Man Who Sold the World, Tony divenne un mentore per Mick. Questo era molto interessato ai metodi di registrazione e all’arrangiamento dei pezzi, e decise di aiutare Tony. Dopotutto, Tony era un produttore di successo di tutto rispetto e Mick seguiva le sue istruzioni alla lettera. Facemmo tutti tesoro dell’esperienza di Tony e del suo desiderio di condividerla con noi. Bowie era fortunato a lavorare con lui e non mi sorprende che i due rimasero amici e collaboratori per il resto della vita di Bowie. Tony aveva delle idee grandiose e le usò per creare le giuste sonorità per The Man Who Sold the World, per quanto chiese anche dei consigli a Mick. Cose tipo: “Come lo suono il basso in questo album?” e Mick gli rispondeva “impara a suonarlo come Jack Bruce e andremo alla grande!”. Ricordo il giorno in cui Tony mi portò un guiro, una percussione latinoamericana che voleva suonassi. Diede per scontato che mi intendevo di percussioni, ma io guardai questo cilindretto, con le striature di lato e un buco alla fine e pensai, “che cazzo ci faccio con questò”
“Soffio nel buco?”, gli chiesi.
E lui, “no, coglione!”, mi diede una bacchetta da passare sulle striature per produrre quel suono frastagliato. Lo si sente nel brano che dà il nome all’album. Poi mi diede dei mattoncini di legno, delle castagnette, dei timpani e altri strumenti che non avevo mai suonato prima e mi mostrò come usarli; posso dire che ingrandì il mio vocabolario e iniziai a sentirmi une vero musicista.
Mentre succedeva tutto questo, Bowie passava il tempo con Angie. Quando si presentava allo studio, non faceva che sedersi con lei su un divano nell’anticamera. Il fatto che Bowie si comportasse così fece imbestialire Tony, non gli piaceva lavorare in quel modo; voleva che l’artista principale fosse sempre partecipe. Non stupisce che litigarono a causa di tale atteggiamento. Ma quando Bowie entrava a registrare il cantato, la situazione si rasserenò. Suonare quei pezzi fu piuttosto semplice per noi, per quanto alcuni fossero alquanto complessi. Alcune parti di batteria erano particolarmente intricate. Mentre mi preparavo a registrare, riprovavo le parti in testa, e mi dicevo: “Devo inserire questa rullata da qualche parte”. In seguito, riascoltando alcuni di quei pezzi, mi sono detto “come diavolo ho fatto a suonare così?”.
Buona parte dell’album fu improvvisata; sapevamo come andavano le canzoni, quindi ci giocavamo su finchè non usciva qualcosa che ci stesse bene. Godevamo di una vasta libertà espressiva, la stessa che si ritrova in tutta la musica che apprezzavo degli anni Settanta, quali i Led Zeppelin o i King Crimson, ad esempio. La gente diceva che gli Zeppelin erano super precisi, ma se li ascolti bene, ti accorgi che John Bonham spesso andava fuori tempo. Non che abbia importanza; sono convinto che il rock’n’roll debba essere esattamente così. Oggigiorno ci sono un botto di regole e credo abbiano scombinato la filosofia alla base del rock.
Mentre noi tre registravamo le parti musicali, ci sbizzarrimmo a lavorare di squadra per rendere i brani impeccabili. Sistemammo l’attrezzatura allo stesso modo in cui facevamo nei live: batteria al centro, Mick alla mia sinistra, Tony a destra e Bowie davanti. Ci sembrava la disposizione più adatta, visto che avevamo ancora molto da creare per i pezzi. L’intento condiviso era di rendere le canzoni elettrizzanti. Dopotutto, era un evento importante, era la prima volta che registravo in uno studio serio e avevo tanto da imparare. Lavorare con Tony fu a dir poco incredibile, data la sua vasta esperienza.
Durante le registrazioni bevevamo soprattutto tè e caffè. Mick a volte si faceva una birra. Eravamo eccezionalmente disciplinati e concentrati sul lavoro. Ma una volta finito il disco e tornati a Haddon Hall, fu il delirio: facevamo festa ogni fine settimana.
Marc Bolan era un habituè. Aveva la stessa età di Bowie ed erano amici dal 1964, quando vennero assunti per dipingere le pareti di uno degli uffici di Les Conn, il loro manager del tempo. Come Bowie, anche Bolan attraversava un periodo di transizione. I Tyrannosaurus Rex avevano avuto un certo successo con singoli come ‘Debora’ e ‘One Inch Rock’ e il suo quarto album, A Beard of Stars, arrivato al ventunesimo posto delle classifiche, fu pubblicato poco prima che mi unissi alla band di Bowie. Anche Marc arrivò al rock partendo da sonorità hippie folk e quell’estate Visconti avrebbe prodotto e suonato il basso nel loro prossimo album.
Bolan si comportava da popstar, nel senso che amava trovarsi al centro dell’attenzione, ma bisogna ammettere che non lo facesse in modo seccante. Sotto quest’aspetto era molto simile a Bowie, per quanto Bolan fosse più ricercato. Un giorno si presentò indossando mantella nera, cappello a falda larga e scarpette da danza.
Una volta gli chiesi dei suoi trucchi da paroliere; mi disse “Ho un registratore in ogni stanza, per fermare le idee. Ne ho uno anche in bagno”.
Pensai fosse un tantino eccessivo, ma rimasi di sasso quando mi disse di aver preso lezioni di chitarra da Eric Clapton. Bolan e Bowie erano ottimi amici, per quanto dietro l’amicizia si celasse della rivalità, non che la cosa creasse intoppi. A detta loro, entrambi sarebbero divenuti presto delle celebrità. Quell’anno conobbi anche Arthur Brown e mi sembrò un attimo perso. Il suo gruppo, i Crazy World di Arthur Brown, ebbe un gran successo con Fire, due anni prima, ma quando gli chiesi a cosa stesse lavorando, non ne aveva la più pallida idea.
“La band si è sciolta l’anno scorso”, rispose.
“E ora cosa faraì”, chiesi.
Fece spallucce e non disse nient’altro.
Ero più in sintonia col cantautore Roy Harper, che suonò pure a Haddon Hall, una volta. Il suo quarto album, Flat Baroque and Berserk, uscì un paio di mesi prima che lo conoscessi e finora era quello che aveva avuto più successo, arrivando al numero venti delle classifiche. La sera che suonò da noi, io e Mick avevamo fumato nel seminterrato, a casa di Tony Frost, amico di Bowie. Credo lavorasse come guardia del corpo e buttafuori in un club di Londra, ma questo è tutto ciò che riuscii a carpire di lui. A casa, aveva lo stesso impianto stereo che potevi trovare nei club, perciò andavamo da lui a sentire la musica. Frost aveva anche l’erba migliore di Londra, quindi ci ammazzavamo di canne ascoltando raggae.
Quella sera ci facemmo una canna e poi andammo alla festa al piano di sopra; c’erano tutti gli amici dei Bowie e sapevamo che a un certo punto avrebbe suonato Roy Harper. Più facile a dirsi che a farsi. Pensionati e famiglie vivevano a ridosso alla sala principale e, di conseguenza, dovevamo tenere la musica piuttosto bassa, soprattutto a tarda sera. Avevano detto a Roy di tenere d’occhio il volume e, all’inizio, lo fece anche. La gente sedeva, in silenzio, ad ascoltarlo e a passarsi canne. All’improvviso Roy si fece prendere dalla situazione e iniziò a suonare a tutto volume. Io e Mick scoppiammo a ridere, ci sbellicammo e finimmo col rotolare sotto il tavolo, perché non ci tenevamo davvero più dal ridere. La gente pensò ridessimo di Roy e ci intimarono di smetterla di rompere il cazzo, ma noi non volevamo mancare di rispetto a nessuno; eravamo solo fumati persi e ci aspettavamo che, da un momento all’altro, sarebbero venuti gli inquilini del piano di sopra a cacciare tutti.
In altre occasioni, Bowie ci faceva vedere carrellate di film di Lindsay Kemp, l’artista di mimo e danza dal quale aveva preso lezioni. Lo ritenevo piuttosto strano, pur riconoscendo che fosse notevole da un punto di vista artistico, anche ai primordi. Era solo che non capivo cosa c’entrasse con quello che avevamo in mente. Resta inteso che, col passare del tempo, mi evolsi da quella posizione e i miei orizzonti si allargarono. Ero piuttosto ambizioso e all’epoca mi importava solo che la nostra band raggiungesse la fama. Volevo far parte di un gruppo di successo: non un gruppetto qualunque, ma il migliore. Speravo che Bowie scegliesse il modo migliore perché accadesse ed ero pronto ad aiutarlo.
Ricordo che quando finimmo The Man Who Sold the World e il mixaggio fu completato, Bowie ce lo fece ascoltare a Haddon Hall; eravamo eccitatissimi. Come ho già ripetuto, era la nostra prima volta in studio con un produttore serio e questa era l’occasione di sentire cosa avessimo creato. Non potevo minimamente immaginare l’effetto sonoro della mia batteria nè tantomeno Mick sapeva come sarebbe arrivato quel suo modo di suonare la chitarra. Mentre ascoltavo, pensai che avessimo fatto un ottimo lavoro. Avevo ancora tanto da imparare, ma sapevo quando intervenire e quando stare fermo. Molte delle band con le quali eravamo cresciuti presentavano spesso delle sezioni improvvisate nei loro brani, che emanavano un certo senso di libertà pur seguendo un arrangiamento strutturato e noi ne volemmo seguire l’esempio, in The Man Who Sold the World. I Cream e i Led Zeppelin erano particolarmente bravi in questo genere di cose. Quindi per noi era normale pensare che i pezzi non dovessero essere particolarmente strutturati. Bowie aveva già scritto buona parte del primo pezzo, Width of a Circle, prima che entrassimo in studio. Una delle poche canzoni pressochè pronte prima di entrare in sala. Per quanto riguarda la batteria, era solo una questione di trovare il ritmo giusto. La seconda parte del brano, che ha un tempo differente, non esisteva affatto prima che iniziassimo a improvvisare in studio. Solo a posteriori, Bowie ci aggiunse melodia e cantato. In All the Madmen, Tony aveva in mente una sezione di bolero e mi incoraggiò a suonare la campana del ride, per creare un melodia coi piatti. Per quanto riguarda Black Country Rock, non ho mai veramente capito di cosa parlasse. Sapevo solo che quando la sentivi, quel riff ti rimaneva in testa per giorni. Dalla regione delle Midlands era partita dell’ottima musica; forse era di questo che trattava il pezzo. After All era uno dei primi esempi del modo strano di Bowie nell’affrontare la vita. L’idea di base era che saremmo invecchiati pur conservando un cuore giovane. La batteria doveva essere pacata per un pezzo così lento; giusto del charleston per tenerla insieme, con dei colpi occasionali al ride e al timpano. Running Gun Blues parte con un timpano riverberato e mi si sente anche suonare il tamburello. Il soggetto era cupo: un soldato rientrato dalla guerra conservando ancora la pistola e il desiderio di uccidere. Sembra più consona oggi di allora. Saviour Machine è un pezzo sci-fi su un presidente che aveva ideato un macchinario per controllare tutto il pianeta, dal clima alle malattie. Purtroppo, la macchina si era stufata e pregava di essere spenta, considerando l’idea di iniziare delle guerre o di creare una piaga per uscire dalla noia. Aveva dei bei cambi di tempo e musicalmente era piuttosto complessa. Anche questa si adatta ai tempi, perché il mondo sta diventando davvero così, o sbaglio? Ci si affida sempre più alle macchine.
Ci sono belle parti di batteria in She Shook Me Cold. In questo pezzo apparivamo evidentemente grezzi e sensuali, o perlomeno io lo ero! Penso ancora che l’introduzione di chitarra di Mick sia ancora il più aspro e sporco mai registrato. The Man Who Sold the World è un pezzo splendido e probabilmente il più conosciuto dell’album, al pounto che anche Lulu e i Nirvana ne hanno fatto una cover. In questo, suono anche guiro e maracas. Per finire, il soggetto di The Supermen viene da Friedrich Nietzsche; mentre la suonavo, volevo sentirmi un superuomo, quasi come Thor col martello della guerra. Mi sentivo davvero così. Accompagnai la batteria con dei timpani accordabili; amavo suonarli. Quei temi, Nietzsche fra gli altri, erano argomenti di conversazione con Bowie, ma non è che ci si soffermasse spesso. Diceva che quel pezzo illustrasse il futuro dell’umanità, in cui le macchine avrebbero sviluppato una propria coscienza. Erano concetti piuttosto selvaggi. The Man Who Sold the World è interessante perché non aveva una base commerciale. Suonavamo a seconda dell’ispirazione del momento, senza nessuno che ci dicesse che il pezzo sarebbe diventato un singolo e quindi doveva durare tre minuti e mezzo. Quest’album non apparteneva a quel filone e diedi libero campo all’espressione artistica. Fu il nostro Sgt. Pepper, per così dire, perlomeno in termini di rock progressivo. Mi permetto il paragone perchè su queste canzoni riuscimmo davvero ad aprirci e a fare tutto ciò che ci sembrasse giusto. Noi tre ci sfogammo alla grande, ognuno sul proprio strumento e poi ci riunimmo a modificare alcune parti. Avevamo anche un sintetizzatore Moog, suonato da Ralph Mace, amico di Bowie, che era grande quanto una stanza e sembrava avere almeno mille manopole!
Era un bell’album e anche piuttosto bizzarro, in un certo senso, ma ci fidavamo tutti dell’opera di Tony, quindi avremmo anche potuto alzarci e far casino, se avessimo voluto. È una sensazione splendida quando registri, avvertire quel senso di sicurezza perchè il produttore sa il fatto suo. Se si esagerava con le stranezze strano o ci si discostava dal concetto base, Tony ce l’avrebbe detto. A volte mi dava delle indicazioni, ma andava a sensazione, perché anche lui era un neofita in questo genere di musica. Quando sentiva qualcosa che gli piaceva, ci chiedeva di rifarlo. Buona parte di The Man Who Sold the World fu fatta a naso. Quando mi guardo indietro, mi rendo conto che Bowie stava sperimentando delle sonorità nuove. Per me, quest’album rappresenta il salto a pie’ pari di Bowie nel rock’n’roll. È incredibile che riuscisse ancora a scrivere canzoni così splendide, nonostante la confusione che avesse in testa. In un certo senso, tutto il 1970 fu un gran caos. La nostra band era nuova e stava premendo sull’acceleratore, ma nessuno di noi sapeva quale fosse la direzione giusta da seguire, Bowie meno di tutti. Ci stavamo divertendo, ma non era certo abbastanza.
Il libro
Spider from Mars – La mia vita con Bowie
di Woody Woodmansey
In collaborazione con Joel McIver
Officina di Hank – Chinaski srl © 2020
L'autore
Michael 'Woody' Woodmansey è stato il batterista degli Spiders from Mars di David Bowie dal 1969 al 1973 suonando negli album The Man Who Sold the World, Hunky Dory e The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars.
Nato a Driffield, Yorkshire, nel 1951, è l’ultimo membro ancora in vita dei The Spiders from Mars.
Attualmente vive a Londra e continua la sua attività musicale con la band degli Holy Holy.
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