Il 6 gennaio 2021 è il secondo capitolo che segue quello dell'11 settembre 2001. Il 9/11 ha dimostrato la vulnerabilità fisica della superpotenza che con la Seconda Guerra mondiale si è imposta al mondo, stabilendo la sua influenza economica e culturale e sconfiggendo il comunismo dell’Unione sovietica con la caduta del muro nel 1989. L'1/6 ha dimostrato la vulnerabilità interna americana, la fragilità del sistema democratico stesso che nel 2016 ha consentito di eleggere democraticamente un leader autoritario e golpista al vertice di quella che si autodefinisce come la democrazia migliore del mondo, ma che di sicuro è la più longeva nei tempi moderni. E forse proprio per questa sua anzianità vive ora la necessità di un rinnovamento, a partire dal suo sistema elettorale.
Quali possono essere le conseguenze sulla politica estera americana di quanto accaduto il 6 gennaio? Nel suo programma elettorale, il presidente eletto Joe Biden ha delineato come intende agire. Cambiamenti climatici, proliferazione nucleare, stop alle aggressioni delle superpotenze e al terrorismo internazionale come alle cyber-guerre e alle migrazioni di massa, nel pieno rispetto dei diritti umani. E poi un Summit per la Democrazia dove discutere di lotta alla corruzione, autoritarismo e rinsaldare l’importanza della protezione dei diritti civili, con una call to action alle Big Tech per combattere gli abusi degli hacker e della sorveglianza che viola la privacy. L’ha chiamata una "politica estera per la classe media". Tra le ipotetiche conseguenze c’è la possibilità che si crei una Lega delle Democrazie. Quindi è possibile immaginare che dall’altro lato possa nascere una Lega degli Autoritari? Questa spaccatura in due fronti assomiglierebbe parecchio a una nuova versione della Guerra Fredda. Il punto debole di questo scenario è che si basa, in fondo, su una visione ideologica che ha fatto il suo tempo: l’eccezionalismo americano.
E come può uscirne Biden? Con una sfida difficilissima, quella della capacità di, come dice il suo slogan elettorale, vincere la "battaglia per l’anima dell’America" riportando verso un minimo comune denominatore una buona parte dei 70 milioni di americani che hanno votato per Trump. L’impegno bipartisan, insomma, creando una spaccatura all’interno di quei 70 milioni di voti, accordandosi con i Repubblicani anti-Trump e convincendo i trumpiani più docili a lavorare a un progetto comune che ricostruisca un senso di nazione.
A parte il pericoloso folklore, ingrassato da una dieta di fake news, e a parte il radicato razzismo di molti americani, i fattori che hanno portato Trump alla vittoria non sono scomparsi. La promessa della democrazia liberale di nutrire il progresso tramite la crescita economica si è rivelato fallace in un dettaglio: la crescita c’è stata, ma la distribuzione di questo sviluppo è stata sempre più iniqua, finendo prevalentemente nelle tasche del famoso 1 per cento. Come creare una distribuzione di ricchezza più egalitaria e democratica, senza ricorrere al socialismo democratico di Bernie Sanders? Con adeguate riforme fiscali, sul fronte interno. Trovando quindi un difficile punto d’incontro con una parte dei Repubblicani. E ponendosi, sul fronte internazionale, non più come leader di una democrazia eccezionale e migliore di tutte, non più come presidente di quell’America Number One gridata ottusamente a tutti polmoni dalla disperazione degli impoveriti dalla globalizzazione, ma come leader di una nazione che pur restando superiore economicamente si rimette a ricostruire, a casa sua e nel rapporto con le altre democrazie, un nuovo ordine mondiale più solidale e compatto. Per rinsaldare il senso stesso della democrazia.
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