Carlo Bernari era insofferente a ogni forma di cliché che potesse imbalsamare la realtà. Con " Tre operai", nel 1934, aveva cancellato l’immagine radiosa di Napoli insistendo sul cielo plumbeo attorno al Vesuvio, sull’alienante vita di fabbrica, facendo esplodere i sentimenti cupi e sbandati dei suoi protagonisti. Quando nel 1949 pubblicò per Mondadori " Speranzella", vincendo l’anno dopo il Premio Viareggio, dimostrò definitivamente di essere uno dei padri del neorealismo letterario italiano, e che il metodo Bernari di restituire la realtà, dettagliata soprattutto delle inquietudini, era giunto a perfezione.
Il romanzo della via che diventa mondo, proprio a un passo da Toledo, eppure così distante dalla città che tutti sono convinti di conoscere, è stato appena ripubblicato per l’edizioni BeaT, casa editrice fondata da Enrico Bernard, figlio di Bernari, con una nota introduttiva di Carmen Lucia che analizza con esattezza via Speranzella quale «luogo reale ma anche allegorico, luogo della lacerazione e delle ferite della guerra, ma anche della luce della speranza sull’orrore dell’abisso della guerra».
Bernari colse, e raccontò in un romanzo di labirinti interiori, oltre quelli tortuosi dei Quartieri Spagnoli, l’anima di Napoli in costante allarme dopo la Liberazione, nonostante la guerra fosse terminata. La fame è una condizione permanente, la paura un’ombra sempre in agguato, l’istinto di sopravvivenza è esercitato su ogni azione quotidiana. Napoli dopo la guerra vive ancora in guerra.
Qualunque pensiero di chi abita la Speranzella è ridotto a sopravvivenza, la stessa speranza è residuale, il boccone di una vaga promessa, così la strada ha un nomen omen tragico, amaro, appare come trincea perenne. Infatti, in apertura del romanzo, Bernari chiarisce come all’incrocio con vico Sergente Maggiore campeggino ancora i segni del conflitto, di una città che non riesce a dimenticare.
Si legge " Out of bounds" e più sotto: " Off limits". Lasciate ogni speranza quando entrate, benvenuti nella Speranzella, ovvero in quella porzione di Napoli che rappresenta la città che non ha timore di riconoscere quanto l’angoscia si è accovacciata nell’anima, fa dormire poco e male, è sempre pronta a strisciare senza concedere requie. Allora bisogna essere sempre pronti a reagire, ricominciare, come fanno Ciccillo, infermiere agli Incurabili, sua moglie, Donna Elvira detta la Cafettèra che da un basso ha ricavato il Bar Babilonia, crocevia di ogni destino dei Quartieri, e i loro figli, Michele e Pascalotto. Sono il gruppo di famiglia in perenne conflitto, un nucleo di scontri generazionali e di visioni su come affrontare la rinascita.
Ciccillo è più dimesso, fatalista, invece Donna Elvira – «due strane pieghe agli angoli della bocca vogliosa, e un ardore in fondo all’occhio » – ne è il perfetto controcanto, affronta la realtà e vuole dominarla, lo ha fatto in guerra, continuerà sempre. Lei briga, gestisce affari, è stata la regina della borsa nera, è un’ostinata sostenitrice dei monarchici, in fondo desidera che non cambi nulla. «Aveva fatto dell’idea monarchica un fascio di interessi in cui usura, contrabbando, frode, beneficenza e assistenza e assistenza sanitaria si intrecciavano al nodo sabaudo».
Poi c’è chi dalla Speranzella vuole fuggire. Michele sogna di liberarsi di Napoli, di andarsene con Nannina, l’altra figura femminile che domina il romanzo, simbolo di una nuova generazione che procede in tutt’altra direzione a quella della Cafettèra. Lei, nonostante la violenza subìta da un militare americano, resta tenace aggrappata ai pochi brandelli di speranza che restano.
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