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Domingo: Plácido, ma sol di nome

VIENNA. È nato in teatro, educato in teatro, cresciuto in teatro. Ha sbirciato il mondo dal palcoscenico, non conosce un'altra vita. È come uno di quei divi di Hollywood – Judy Garland, ad esempio – che hanno seguito le orme dei genitori e hanno dedicato, a volte sacrificato, l'intera esistenza allo spettacolo.

Plácido Domingo – tenore, baritono, direttore d'orchestra e di prestigiosi teatri d'opera – 80 anni da compiere il 21 gennaio, ha una stella nella Walk of Fame di Hollywood ma non quel tipo di fragilità. È una quercia, un mattatore, accaparratore di ruoli (oltre 150 nella carriera), audace alfiere di quel recitar cantando caro a Verdi, spavaldo protagonista dei Tre Tenori (con Pavarotti e Carreras), impavido interprete di canzoni e duetti ben in anticipo sulla sbandata pop di Big Luciano. Inarrestabile, l'ultimo dei grandi della lirica del Novecento ancora in carriera.

Arriva a Vienna dopo un recital a Montecarlo, un Nabucco a San Pietroburgo e una toccante performance all'apertura della Scala (il suo decimo Sant'Ambrogio) con quel vibrante Nemico della patria dall'Andrea Chénier. Parla del Bolshoi, di un altro Nabucco il 22 gennaio alla Wiener Staatsoper, della ripresa dell'attività in Spagna, dove ha trascorso il Natale, degli appuntamenti estivi all'Arena di Verona. Poi ci sono gli incontri di football e la Formula Uno da seguire in tv, dei quali ricorda giorno e ora. Gli piange il cuore a vedere i teatri paralizzati, i colleghi in quarantena; lui il Covid l'ha affrontato e sconfitto con la moglie Marta Ornelas, 85 anni, all'inizio della pandemia. Sono stati convalescenti nella villa di Acapulco, in Messico, a recuperare le forze e tentare di riorganizzare una carriera messa a repentaglio, a un'età in cui è lecito sentirsi inattaccabili, da accuse per molestie sessuali che sarebbero avvenute decenni fa (anche se ostracizzato dai teatri americani, le accuse non hanno mai trovato sostanza in tribunale; Domingo ha esposto le proprie ragioni in un'intervista esclusiva a Repubblica il 5 agosto 2020 e tradotta in tutto il mondo).

"Dopo i concerti estivi di Napoli, Firenze e Verona, ho dovuto cancellare molti appuntamenti importanti". Neanche sua madre, la diva della zarzuela (l'operetta spagnola tanto in voga nei primi cinquant'anni del 900) Pepita Embil (1918-1994), immaginava un futuro tanto tumultuoso e una carriera così longeva per il figlio che improvvidamente battezzò Plácido. "Quel nome è un destino della nostra famiglia", spiega l'artista nella suite del Bristol intitolata a Edoardo VIII principe di Galles che vi soggiornò nel 1936 (in una Vienna paralizzata dal lockdown, il direttore del lussuoso albergo ha riaperto una stanza per il tenore solo per poche ore). "Veniva da mio padre, anche uno dei miei figli e un nipote si chiamano Plácido. È una manìa spagnola quella di lasciare i nomi in eredità anche quando genitori e nonni sono ancora vivi. A mia madre quel nome era oltremodo caro, perché nella prima zarzuela al Liceu di Barcellona interpretava il personaggio di Plácida, nome insolito per una donna. Avrebbero dovuto chiamarmi Sábado Tormentoso (Sabato Tempestoso)".

Il 2020 è stato un anno pericoloso per l'artista, forse anche più del 1985, quando alcuni suoi familiari persero la vita nel devastante terremoto in Messico (per le sue attività umanitarie gli hanno dedicato una statua nel cuore della capitale). "Fu un colpo terribile, anche a livello personale. Ricordo lo strazio di non sapere che fine avevano fatto i parenti. Con mio figlio Pepe, nato dal primo matrimonio nel 1958, e il marito di mia sorella, eravamo alla ricerca dei dispersi. Morirono il fratello di mia madre e sua moglie. Si salvò il figlio di mia zia, un bambino. Anche se questa pandemia è terribile e non ne conosciamo esattamente la portata, non tutto è stato negativo. Ho avuto sei mesi per stare in famiglia, con mia moglie e i miei nipoti. Magari altrove la convivenza forzata ha causato rotture e divorzi, per me è stata un'occasione unica".

Abbassa gli occhi, pensa alla Señora Marta, che era un soprano di belle promesse e dopo il matrimonio fece un passo indietro, concentrandosi sull'attività di designer e direttore di scena, per permettere a lui di risplendere. Lo aspetta nella casa di Vienna, a pochi isolati da qui. "Dopo il Covid non ci siamo lasciati un attimo, stiamo sempre insieme", mormora. Parla volentieri delle donne della sua vita; la mamma prima di tutte, che scoprì il talento del piccolo Plácido a cinque anni, quando lo ascoltò cantare dietro le quinte l'aria difficilissima di una zarzuela. "Papà era catalano, violinista al Liceu di Barcellona, poi baritono; mamma basca, di Getaria". Troviamo su YouTube un piccolo video di Pepita Embil che canta Estás en mi corazón. Domingo si commuove: "I miei mi spinsero a studiare il pianoforte, poi quando cambiai voce, cominciai a cantare. A tutti sembrò la cosa più logica del mondo. Intorno ai quindici anni, mentre suonavo il pianoforte e intonai qualcosa, vidi gli occhi pieni di lacrime di mia madre. Le chiesi: "Perché piangi?" E lei: "Canti benissimo!". Obiettai: "Ma no, ho perso un'ottava". "Non importa", aggiunse, "ora hai la voce da uomo". Fu la prima ad ascoltare la mia voce da tenore. Era dolce e fortissima. Quando mi dicono "Plácido, che gran lavoratore sei!" penso a come lavoravano i miei genitori: ogni giorno due rappresentazioni, la domenica tre. E alla fine delle recite provavano gli spettacoli dell'indomani. Quel che ho fatto nella mia carriera e quel che faccio oggi è riposante al confronto".

Nel 1946, quando dopo la Guerra Civile molti spagnoli chiedevano asilo politico in Sudamerica, i Domingo partirono per una tournée nel nuovo mondo. Erano talmente popolari che il grande compositore Federico Moreno Torroba (1891-1982), li volle con sé anche a Cuba e Portorico. "Nel 1980 Moreno avrebbe scritto anche un'opera per me, El poeta", aggiunge Domingo, che con la sorellina e una zia raggiunse i genitori in Messico due anni dopo. "La compagnia rientrò in Spagna, ma senza i miei: ormai innamorati del Messico, dove erano diventati delle star, formarono una loro compagnia. Mio padre non cantava già più, aveva perso la voce; a quel punto faceva il direttore di scena e l'attore; mia madre era la star di casa Domingo. Io, mia sorella e una zia partimmo alla fine del 1948 e arrivammo a Veracruz il 18 gennaio 1949. In nave, naturalmente; avrei compiuto otto anni tre giorni dopo. Per me non esisteva altro che la zarzuela. Cominciai ad accompagnare la mamma al piano, fino ai diciotto anni, quando feci la prima audizione per un'opera… e presi una bella stecca in Amor ti vieta dalla Fedora di Giordano".

Precocissimo in tutto, a sedici anni aveva tentato di metter su famiglia: fuitina con una coetanea che era rimasta incinta e matrimonio lampo che durò il tempo della gravidanza. "Pensai di essermi irrimediabilmente innamorato e di essere in grado di affrontare la responsabilità di una famiglia. Neanche pensai ai problemi che avrei causato, alla zia che si prendeva cura di noi, soprattutto. Quell'episodio mi ha fatto maturare precocemente. Capii non solo quanto era bello il mio lavoro, ma quanto avessi bisogno di lavorare per far fronte alla nuova situazione".

Aveva la tempra di sua madre, la tenacia di suo padre, era capace di interminabili maratone teatrali già dal 1959. "Le città – Guadalajara, Monterrey, San Luis Potosí, Aguascalientes, Puebla – si mobilitavano quando arrivava la compagnia. Proprio a Guadalajara feci il mio debutto, in Molinos de viento, una zarzuela composta da Pablo Luna nel 1910. Guadalajara mi è particolarmente cara, ancor di più adesso che mi hanno intitolato un teatro. C'è un'altra città che è nel mio cuore, si chiama Tequila, anche lì stanno costruendo un teatro che porta il mio nome. Superata la pandemia vorrei dedicare un po' di tempo al mio Messico".

Era già perfettamente rodato quando nel 1962 firmò il primo contratto a lungo termine con l'Opera di Tel Aviv: 280 recite in 12 diversi ruoli nel giro di poco più di due anni. "L'opera è sempre stata la mia vocazione e la mia… tentazione, volevo – e voglio – scoprirne di nuove. Oggi abbiamo un repertorio assai più vasto di mezzo secolo fa; quando ho esordito si rischiava di rimanere incollati agli stessi ruoli. Abbiamo rivalorizzato il repertorio di Händel e Haydn, opere come Rusalka di Dvorák, Da una casa di morti di Janácek; io stesso ho messo in scena cose che nessuno faceva più, come la Francesca da Rimini di Zandonai, Sly di Ermanno Wolf-Ferrari, Le Cid di Massenet, il Cyrano de Bergerac di Franco Alfano".

Quando, nel 1968, trionfò al Metropolitan come sostituto di Corelli nell'Adriana Lecouvreur con Renata Tebaldi, era più di una promessa del bel canto. Ma soprattutto un tenore affidabile, di quelli che fanno sentire i sovrintendenti in una botte di ferro. "Mi avevano già scritturato, dovevo debuttare quattro giorni più tardi, Corelli cancellò l'ultima recita. Panico. Io avevo già cantato Il tabarro di mercoledì, il venerdì avevo fatto Pagliacci, sabato, una pomeridiana, facevo Calaf nella Turandot. Alla fine della rappresentazione andammo a casa – allora abitavamo in New Jersey – per cambiarci e assistere alla recita di Corelli. Mi chiamò il direttore del Met, Rudolf Bing, per dirmi che avrei dovuto prendere il posto del celebre tenore quella stessa sera" (avrebbe poi inaugurato ben 21 stagioni del Met, superando il record di Enrico Caruso). Subito dopo, l'Italia: prima a Verona, 16 luglio, poi alla Scala, il 7 dicembre 1969. "Mentre facevamo le prove di Turandot c'erano gli astronauti sulla Luna – la Luna è un elemento ricorrente in tutta l'opera", ricorda. Intona Perché tarda la luna e si asciuga una lacrima. "Quanto tempo è passato. I miei figli hanno 65, 58 e 52 anni … ricordo la sera che arrivammo a Verona con i bambini, lasciai i bagagli e corsi a cercare il latte per il più piccolo, Álvaro, che aveva pochi mesi. Risalendo in camera, rimasi bloccato per un'ora in ascensore".

Era solo l'inizio: sarebbero arrivati 14 Grammy; si sarebbe inchinato alla Regina Elisabetta e a tre papi; avrebbe affrontato con entusiasmo Verdi e Wagner, Puccini e Tchaikovsky, Mozart e Bizet; avrebbe strappato a Laurence Olivier un complimento lusinghiero: "Domingo recita Otello bene almeno quanto me, e in più ha quella voce". Pensi a un grande della classica del secolo scorso o a una star del nuovo millennio, e immancabilmente lo trovi a fianco di Plácido in un allestimento teatrale o in una delle oltre 200 incisioni.

Neanche la ridondanza di opere in streaming, in questi difficili mesi, è riuscita a coglierlo di sorpresa. È stato un pioniere delle opere in tv e sul grande schermo. E non solo per i memorabili Traviata (1983) e Otello (1986) diretti da Zeffirelli ma soprattutto per quelle magnifiche produzioni di Andrea Andermann trasmesse in mondovisione, come Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca (1992), diretto da Patroni Griffi, e Rigoletto a Mantova (2010), regia di Bellocchio. "Quante belle cose ho fatto! Oggi è diventata una necessità per i teatri, quelli invece erano progetti studiati per essere trasmessi sul piccolo e/o sul grande schermo, richiedevano tempi e costi enormi. Pensi al Rigoletto a Mantova: girammo quasi contemporaneamente nel Palazzo Ducale, nel Palazzo Te e in una vecchia torre ristrutturata per l'occasione che diventò la casa di Sparafucile. Il mio debutto come baritono fu proprio in Rigoletto a Mantova, nel 2010. Ah, no, sto sbagliando, avevo già fatto Simon Boccanegra a Berlino e alla Scala, nel 2009".

Domingo si avventura nella giungla dei ricordi, guarda un punto indefinito nella stanza alla ricerca di volti, voci, suoni. "I grandi amici baritoni: Sherrill Milnes, con il quale ho cantato moltissimo negli Usa, e Piero Cappuccilli. Mirella Freni, straordinaria. Qui a Vienna feci il mio debutto in un Don Carlos insieme al geniale basso Hans Hotter, che faceva il Grande inquisitore. Tira un sospiro profondo, per aiutarsi a sentirsi a proprio agio nell'Olimpo. "Con Christa Ludwig cantai anche la Missa Solemnis di Beethoven per Paolo VI, alla Cappella Sistina; regia televisiva di Franco Zeffirelli".

Il crossover e l'incontro con il pop – Perhaps Love (1981), un album di duetti con la star del folk-rock John Denver – scatenarono polemiche, per lui fu un divertissement da quattro milioni di copie. Giura che lo rifarebbe. "Fu una proposta di Milton Okun, il produttore di John Denver; era un appassionato d'opera. All'epoca stavo già incidendo un disco di canzoni pop in cui c'era anche Annie's Song, che Denver aveva scritto per sua moglie".

Neanche l'euforia popolare per i Tre Tenori fu condivisa dai melomani, ma i numeri raccontano un'altra storia: il concerto del 1994 al Dodger Stadium fu trasmesso in mondovisione per un'audience di 1,3 miliardi. "Oggi ne ricordiamo la gloria, ma all'epoca l'operazione fu molto criticata. Eppure tanta gente si è avvicinata all'opera grazie a quei concerti. Ne scrissero di tutti i colori, senza tenere conto che nessuno di noi aveva abbandonato la propria attività per il trio; eravamo artisti con almeno 25 anni di carriera alle spalle! L'esperienza dei Tre Tenori fu esaltante e divertente. Nacque tutto a Caracalla, doveva essere un unico concerto. Dopo il trionfo, cominciarono a interessarsi a noi anche gli impresari di eventi, che ci offrirono un compenso stratosferico per trenta date. È stata un'esperienza che ha cambiato le nostre vite, non solo economicamente: ci ha dato una popolarità che è andata ben al di là dei teatri d'opera. Noi ci siamo divertiti, il pubblico anche. Perfetto, no?".

Nuovo anno, tempo di bilanci. "Sono soddisfatto, anche se questo non è stato un anno esaltante per nessuno. Avrei voluto organizzare un evento memorabile con un'infinità di ospiti il 21 gennaio, per i miei 80 anni. Il Covid non ce lo permette, ma non ci rinuncio, è solo rimandato", conclude. "Mi piacerebbe chiudere in bellezza; spero di capire quando sarà il momento di smettere. Pensavo che dopo aver contratto il Covid non avrei più potuto cantare. Sento che la mia voce è cambiata. Tutti dicono che non è vero, ma io avverto un suono più metallico che non riconosco. Non mi piace, preferisco il velluto. Che fortunatamente è sempre lì, al suo posto". Non smetterà, è la sua vita.

Sul Venerdì dell'8 gennaio 2020

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