Nel periodo di fake news in cui viviamo, il concetto di verità “oggettiva” si è a tal punto indebolito da apparire spesso una chimera. Paradossalmente comunichiamo troppo e la moltiplicazione esponenziale dei punti di vista non aiuta. Parlando e scrivendo d’arte, le fake news fioccano come coriandoli a carnevale, venendo spesso riprese pure da mass media di norma affidabili. I casi sono talmente tanti che ci si perderebbe solo a rammentare i principali. Eppure non è un fenomeno recente, anzi. Soprattutto nei secoli XVII e XIX era frequentissimo, quasi sistemico, e vi furono artisti che su di esso fondarono le proprie fortune. La vicenda di Pietro della Vecchia — un pittore/restauratore/periziatore/falsario vissuto nella Venezia della metà del ’600 — lo dimostra bene.
Era nato a Vicenza all’aprirsi del secolo e le sue prime prove dimostrano un’attrazione viscerale per il mondo di Caravaggio, inseguito sulle tracce di uno dei suoi primi e principali seguaci: il veneziano Carlo Saraceni. Anche colui che sarebbe diventato suo suocero — il flandro-fiammingo Nicolas Régnier — si era precipitato a Roma per rigenerarsi nelle verità del Merisi, che però scordò rapidamente quando qualche anno dopo si recò nella Serenissima. Qui adattò nome (Niccolò Renieri) e linguaggio, trasformandosi da naturalista in classicista. Pietro della Vecchia sposò una delle sue figlie, Clorinda (pure pittrice), e iniziò a collaborare con il suocero, che sempre più si dedicava al commercio dei quadri. All’epoca, infatti, gli originali dei capiscuola più ambiti si erano a tal punto rarefatti da toccare prezzi inarrivabili, con due conseguenze scontate: che molti artefici tendevano a riecheggiarne modi e composizioni, e che si produssero falsificazioni sempre più subdole.
Prima su istigazione del Renieri, poi per scelta personale, Pietro si specializzò nell’imitazione di moltissimi maestri del ’500 e del ’600: soprattutto Giorgione e Tiziano, ma anche Palma il Vecchio, Romanino, Savoldo, Lotto, Paris Bordon, Jacopo Bassano, Tintoretto, fino ai contemporanei Fetti, Strozzi e Ribera. Si sforzava di non eseguire mere copie, ma di coglierne l’essenza stilistica. Il mercato veneziano fu inondato dalle sue fake news e non si capiva più nulla. Divenuto noto quale “esperto in materia”, cominciò a essere richiesto dai collezionisti come consulente.
È celebre l’episodio che lo vide scoppiare a ridere di fronte a un presunto Autoritratto di Giorgione che nel 1675 a Firenze era stato proposto al cardinale Leopoldo de’ Medici, appassionato di effigi d’artisti. Gli si chiese un’opinione e lui rispose che lo aveva eseguito 32 anni prima, su richiesta del Renieri, senza copiare alcun modello, “ben sì per imitare quel singolare autore”. Dal suo punto di vista si limitava a rievocare le maniere altrui, ma ci giocava, e molti giocarono con lui. Il paradosso è che in parallelo aveva un’attività ufficiale prestigiosa: si occupava degli arredi pittorici di Palazzo Ducale e sfornava caterve di pale per chiese e congregazioni caratterizzate da un espressionismo raccapricciante e grottesco.
Di alte frequentazioni, fondò una sua Accademia privata, frequentata pure da patrizi, e in essa si produsse la quantità enorme di tavole e tele “alla Vecchia” che ancora oggi invadono aste, musei e collezioni private. Alcune sono di livello infimo, altre di qualità splendida. Un conoscitore della caratura di cui Federico Zeri inequivocabilmente scrisse: «I suoi virtuosismi di stesura pittorica sono superati dai temi misteriosi, stravaganti, splenetici dei suoi dipinti, spesso bellissimi, che ne fanno uno dei pittori più ermetici del Seicento». In effetti molte sue invenzioni svelano dimestichezze filosofiche, cabalistiche e stregonesche, rappresentando sortilegi, incantesimi e non di rado pratiche sessuali estreme. In più tele palesa un rassegnato scetticismo nei confronti del concetto di Verità, che rappresenta come una fanciulla inerme e irrisa da orribili ceffi. Ma non era solo una Verità storica o metafisica.
È lecito credere che la sua fantastica competizione con il Tempo artistico — messa letterariamente in scena dal suo amico Marco Boschini, in un lungo brano della straordinaria Carta del Navegar pitoresco (1660) — presupponesse una prospettiva di tipo quasi negromantico, che ne indirizzava pure l’attività falsificatoria. D’altra parte, in una Venezia che accolse i successi di un impostore quale fu l’alchimista Federico Gualdi — che dichiarava di avere 400 anni e di essere stato ritratto da Tiziano, prima della sua morte (1576) — tutto ciò sorprende fino a un certo punto. Esattamente come Boschini scriveva nel 1660, ancora oggi “In Galarie de Principi e Signori La virtù de sto Vechia è immascherada; Savendo lu calcar l’istessa strada De molti ecelentissimi Pittori”.
Non è certo un caso che vari suoi lavori si conservino, ad esempio, nelle raccolte medicee. Alla metà del ’600, consulenti di Leopoldo per le acquisizioni sul mercato veneto erano stati, nell’ordine, i suoi sodali Paolo del Sera e, per l’appunto, Marco Boschini. Quest’ultimo — anzi — chiese espressamente il permesso di convocarlo per casi sospetti che venivano proposti al cardinale, come il preteso Autoritratto di Giorgione. Alcuni di questi dipinti fiorentini sono stati individuati da tempo; altri invece più di recente.
Penso al Ritratto di donna già ritenuta di Bonifacio Veronese a Pitti, a un presunto Autoritratto di Tintoretto presentato come del Robusti anche a una non lontana mostra a Venezia o a un altro cosiddetto Autoritratto di Tiziano esposto nell’estate del 2019 a una piccola mostra tenutasi a Pieve di Cadore. Ma forse ce n’è un altro, famosissimo: Il cavaliere di Malta di Tiziano. Nel 2011 ho manifestato la mia personale convinzione (non certezza, ma convinzione) che si tratti di uno dei migliori travestimenti di Pietro. Vero, non vero? Per quanto condivisa da alcuni miei colleghi, la maggior parte di appassionati e specialisti avrà pensato, e continuerà a pensare: fake news, fake news…
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