"Avevo letto un articolo che parlava di una corsa impossibile attraverso l'Africa: in moto, auto o camion, con una mappa tra le mani e nient'altro. Dalla capitale francese fino a Dakar, Senegal". Era il 1978, Hubert Auriol aveva 25 anni. "Il deserto, i colori, i sorrisi di gente sconosciuta. Il viaggio. Ero ancora un ragazzo, e ho pensato: sarà un rito di passaggio, il modo migliore per diventare adulto". Aveva chiesto 3 settimane di permesso in ufficio, il capo s'era messo a ridere: no, torna subito al lavoro. "Stavo andando verso la scrivania, testa bassa: invece mi sono voltato di scatto. 'Allora me ne vado per sempre', gli ho risposto. Con un filo di voce. Tremavo di paura. Stavo lasciando una vita sicura per inseguire un pensiero. Un sogno. Non potevo immaginare che quello sarebbe stato il giorno più fortunato della mia vita". L'Africano aveva raccontato a Repubblica l'inizio della sua storia straordinaria, e quel primo appuntamento la mattina dopo il giorno di Natale, davanti al Trocadero.
"Pioveva fitto, che freddo. Lo strano silenzio dell'attesa quasi copriva il rumore dei motori. Ricordo la confusione, gli abbracci. E gli occhi delle persone venute a salutarci: brillavano. Di emozione, però anche di qualcosa come…invidia, ecco. Avrebbero voluto partire con noi. All'improvviso ci siamo resi conto che stava cominciando una folle, grande avventura. Qualcosa che avrebbe cambiato per sempre le nostre storie". Quella di Hubert Auriol, morto ieri all'età di 68 anni dopo una lunga malattia, è stata davvero unica, eccezionale: 3 successi nel rally più famoso del mondo (nell'81 e nell'83 in moto, nel '92 al volante di un'auto), un'edizione persa per la frattura di entrambe le caviglie mentre era al comando, gli ultimi anni passati ad organizzare raid e corse nei deserti di tutto il mondo.
"Un vero signore: sorridente, gentile. Empatico. Trattava allo stesso modo un meccanico e il presidente della multinazionale che doveva finanziare la gara. Un maestro di vita", lo ricorda uno dei suoi migliori amici, Carlo Pernat, manager del motomondiale, che allora seguiva la Dakar come direttore sportivo. "L'avevo conosciuto a Vichy, nella casa di Guy Ligier. C'era anche Mitterand, che sarebbe diventato presidente della Francia. Ci ubriacammo di champagne". Fu Pernat a raccogliere le lacrime disperate di Auriol, nell'87: "Correva per il mio team, la Cagiva. Aveva un'ora e mezza di vantaggio su Cyril Neveau. Mancava un giorno a Dakar, era fatta. A 30 chilometri si è spezzato le caviglie contro la radice di un albero, ma è arrivato lo stesso al traguardo. Non so come abbia fatto: quando gli tolsero gli stivali le ossa spezzate fuoriuscivano dalla carne, sporca di sabbia e tendini, midollo. Singhiozzava, delirava: 'Devi dire a Castiglioni (il padrone della Cagiva) che abbiamo vinto!'. E' stata l'unica volta in vita mia che ho pianto".
Auriol aveva 3 figlie: Julie, Jenna e Leslie. Quando ricordava le prime edizioni del rally – attraverso Algeria, Niger, Mali e Senegal: coi tuareg di Tamanrasset, la Grande Moschea di Agadez, i cammellieri di Arlit, le miniere di sale di Gao – gli si inumidivano gli occhi. Pochi anni fa aveva scritto un libro, intitolato "TDSPP", acronimo che sta per: Tout Droit Sur Piste Prioritaire, sempre avanti sulla strada principale. La formula che quelli della Dakar dovrebbero sempre osservare. "L'Africa è avventura. Libertà, vita". Sosteneva che oggi, tra Gps e social, non sarebbe possibile una giornata al Trocadero come quella mattina. "La tecnologia ha ucciso l'avventura. In questo mondo di immagini, per uscire dall'ordinario devi fare cose straordinarie. Allora bastava andare in Africa. E prendere una corsa come pretesto, per scappare via. Per diventare adulto".
Commenti recenti