"Caro Serra, la pandemia poteva lasciarci la possibilità di ripensare il nostro stile di vita. Invece si sente dire che dobbiamo incrementare i consumi per rilanciare l’economia. Ma è possibile che non si possa uscire dal percorso obbligato lavora-produci-consuma? Non si può proprio immaginare un mondo in cui si conquisti ciò che serve e non ciò che possiamo permetterci? Non è un inaccettabile elogio della povertà, ma la semplice constatazione che ci roviniamo la vita sacrificando tempo libero, affetti e attività piacevoli o gratificanti per un nuovo telefono o un’auto con qualche inutile optional in più. E per queste meschine conquiste non solo consumiamo il nostro corpo e la nostra mente, ma anche acqua, aria, verde. Ci lascia indifferenti una disastrosa pandemia fatta di inquinamento, sete, esaurimento delle risorse (al massimo, con un sogghigno, la consideriamo roba buona per Greta).
Farò la figura del nostalgico reduce sessantottino, ma dobbiamo ammettere che quello fu l’ultimo movimento di massa che, depurato dei velleitarismi e delle ingenuità proprie dei giovani, si sia sforzato di pensare a un mondo diverso, volando un po’ più alto dei modesti obiettivi a breve termine. Inglobata quella spinta nelle regole del sistema, inseriti alcuni degli elementi migliori nei posti di vertice del capitalismo, incanalata in una folle lotta armata la disillusione di una minoranza e subentrata la triste saggezza (o l’egoismo) dei capelli grigi, non ho più visto qualcosa di coraggiosamente dirompente. Se l’umanità ha fatto dei passi avanti, però, non lo deve a chi ha gestito un tranquillo e concreto buonsenso, ma a chi ha saputo inseguire la meta irrealizzabile dell’utopia".
Giovanni Morandi (Gallarate)
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Questa lettera è di un paio di mesi fa (abbondanti). L’avevo messa nel piccolo mucchio delle lettere sui massimi sistemi, che non subiscono la dittatura dell’attualità. La ripesco volentieri dopo avere visto un piccolo capolavoro, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sydney Sibilia. È un film sul Sessantotto, mi è piaciuto molto perché ha la capacità di tenere insieme, con la leggerezza intelligente che solo la migliore commedia sa darsi, i tanti aspetti dell’utopia, e di quell’utopia in particolare. La potenza e la fragilità, la libertà e la confusione, l’energia dirompente e l’incapacità di spenderla nel mondo, che alla fine ingoia e digerisce anche i sogni più belli. E, nel caso specifico di quegli anni, la libertà sessuale, che con il senno di poi possiamo dire sia stata la cifra profonda di quella rivoluzione, nonché la sola (quasi) vittoriosa.
Lo veda anche lei, caro Morandi, quel film: si ride, si pensa, ci si commuove. Il racconto rende onore ad alcuni degli aspetti più belli, liberi, gioiosi di quel periodo, che il dibattito successivo tende a dimenticare, a vantaggio di una lettura “solo politica”, e un po’ gretta, di un momento storico che fu invece soprattutto esistenziale: nel senso che sconquassava e rimescolava la vita personale, le famiglie, i sentimenti, i discorsi, i comportamenti. E questo ci riporta dritti alla sua lettera. Perché lei ha ragione, neppure la pandemia, che pure ha inferto colpi durissimi a tante delle nostre abitudini, forse anche a qualche certezza, è stata in grado di cambiarci. Forse perché non si cambia “in negativo”, costretti dall’emergenza e dal dolore, che rattrappiscono, rinchiudono; si cambia sognando, aprendosi, volando sulle ali di un desiderio irresistibile come quello che animò i giovani “inventori” di una nuova isola, e di un nuovo Stato senza regole e senza padroni, l’Isola delle Rose raccontata nel film (ispirandosi a una vicenda vera, per quanto incredibile).
Piuttosto, se è vero che è un consumismo smanioso e irriflessivo quello che detta i nostri comportamenti, c’è da domandarsi se non esista un nesso, subdolo eppure ben percepibile, tra il “vogliamo tutto” di quegli anni e la risposta da Paese dei Balocchi che tutto quel desiderare ha ricevuto da quello che lei chiama, e non a torto, ancora “sistema”, come si usava allora. Il sistema ci ha reso un poco ciuchi, detto alla Collodi. E anche un poco cattivi, perché se ci tolgono i nostri optional (sapesse quanti ne ha la mia nuova auto…) ci sentiamo nudi, e ce la prendiamo con chiunque ci passi a tiro con qualche gadget più di noi.
Ci sono momenti in cui «la triste saggezza dei capelli grigi» di cui lei scrive mi spinge a pensare che libertà e desiderio non sempre vanno a braccetto. Il limite (concetto che l’utopia non conosce) è una bussola non solo politica, anche esistenziale, e gli ambientalisti lo sanno bene. Questa è la vera imputazione che mi sento di muovere a quell’utopia: vogliamo tutto è uno slogan, a conti fatti, poco rivoluzionario, sembra fatto apposta per ingrassare Amazon, non per dare libertà dal bisogno.
Sul Venerdì dell'8 gennaio 2020
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