C’è ancora Bologna nel destino di Marina Abramovic. Trascorsi 43 anni dalla performance del 1977 alla Gam, dove col compagno Ulay si svestì per trasformarsi in porta vivente, ora riappare in un libro fotografico pubblicato dalla casa editrice bolognese Damiani, che attraverso le foto di Marco Anelli documenta l’ultima impresa dell’artista serba, "Le sette morti di Maria Callas", spettacolo- performance andato in scena a Monaco lo scorso settembre ma atteso anche a Firenze e a Napoli, dov’era programmato prima dell’emergenza Covid.
Diventare Callas, ovvero passare dal corpo di Marina a quello di Maria, è l’ossessione della Abramovic da più di trent’anni, e non solo per la somiglianza fisica, che in alcune sequenze è davvero impressionante. Da quest’idea doveva nascere un film, poi un libro, poi ancora un’installazione video. Il risultato finale, passando attraverso infiniti ripensamenti, è la somma di tutto questo: sette episodi in cui convergono musica contemporanea, arie d’opera, video e performance per mettere in scena le sette diverse morti di Maria Callas nei titoli che l’hanno resa famosa, dalla Traviata a Tosca, da Otello a Madama Butterfly, passando per Carmen, Lucia di Lammermoor e Norma. Ma siccome la vita dell’artista non può essere separata da quella della donna – almeno in due biografie così segnate dalla sofferenza per amore come quelle del soprano e della performer – Abramovi? sceglie un unico carnefice, che nello spettacolo (e quindi anche nel libro) è interpretato dall’attore Willem Dafoe, alter ego di Onassis. È lui a interpretare di volta in volta la causa diretta o indiretta della morte dell’eroina, come se la scena culminante dell’opera diventasse il palcoscenico dell’inconscio del soprano, che non si rassegnò mai alla separazione dall’armatore greco.
Nel passare da Carmen a Violetta, Abramovic dà fondo a tutta la sua esperienza di scavo sul corpo, rievocando in alcuni casi i lavori di ricerca sul dolore fisico che la portarono a ferirsi le mani o addirittura alle soglie del soffocamento. Ma più che una retrospettiva, " Le sette morti" sembrano più un’indagine sulla morte in sé, tema già smaccatamente affiorato nella biografia di James Westcott " Quando Marina Abramovi? morirà". Dietro l’impressionante lavoro di équipe che ha portato allo nascita dello spettacolo, ben visibile in alcune pagine del libro, c’è stato anche quello di Silvia Pesci, che sulla rotta New York- Bologna ha guidato Damiani a una delle sue pubblicazioni più ambiziose: «Lavorare con Marina è stato molto emozionante – racconta l’editrice – sono rimasta colpita dalla sua apprensione sull’uscita del libro, a cui evidentemente teneva moltissimo».
E non sarà l’ultimo. Sempre Damiani, nel 2021, pubblicherà il secondo volume dedicato ai ritratti delle persone che nel 2010 parteciparono alla performance " The artist is present" al Moma di New York, dove Marina Abramovic rimase seduta sei giorni su sette, sette ore al giorno per tre mesi, fissando negli occhi gli sconosciuti che a turno sfilavano al suo tavolo. Tra questi ci fu anche Ulay, il compagno d’arte e di vita che dal 1976 al 1988 accompagnò tutti i suoi lavori, compresa la celebre performance alla Galleria d’Arte Moderna, prima che la polizia facesse irruzione per interrompere l’evento. « In un certo senso conclude Silvia Pesci – sono contenta di aver fatto tornare Marina a Bologna, anche se non in carne e ossa ». Ma per un’artista come la Abramovi?, anche lo spirito vale altrettanto.
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