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Bloccare Trump sui social non è una soluzione, e non può funzionare

La triste, criminale, pagina dell'assalto al Congresso di Washington sembra aver prodotto, se non altro, un'ondata di approvazione intercontinentale quando Facebook e Twitter hanno deciso di mettere a tacere il presidente uscente Donald J. Trump. Dopo quattro anni di esclamazioni, cospirazioni e bugie twittate dal presidente degli Stati Uniti alle cinque del mattino, abbiamo pensato, con sollievo: gli hanno finalmente tolto il giocattolo!

In effetti, nota qualcuno ora, è bastato spegnere il suo profilo social, il palcoscenico per l'attenzione delle folle, per costringerlo a concedere la vittoria a Joe Biden. Tutti l'abbiamo pensato, ma è un pensiero sbagliato, che guarda il singolo caso e non la prospettiva, il metodo. È davvero un problema che a decidere sulla capacità di esprimere un pensiero, giusto o sbagliato, buono o cattivo, siano gli amministratori delegati di società quotate in borsa. Non è una soluzione, e non può funzionare.

La crescita dei social media e delle società tech in generale è avvenuta con una rincorsa, travolgente, spesso senza indagare sulle conseguenze. Elon Musk ha twittato un meme richiamando l'effetto domino suggerendo che tutto (Facebook) sia iniziato da un sito per dare i voti alle ragazze carine all'università. Alla fine del domino c'è un personaggio con il cappello da vichingo che prende il controllo del Congresso. Fortunatamente non è davvero andata così. Ma i social media sono una primaria fonte di informazione per gran parte della popolazione americana: molte ricerche sostengono che questo non aiuti gli utenti-cittadini a mettere le informazioni nel giusto contesto. Il confine tra notizia verificata e fake news sembra davvero labile, il confine tra uomo politico e testata giornalistica sembra difficile da riconoscere. Altri studi dicono invece che sarebbe l'innata volontà umana di vedere confermate le proprie idee a farci rinchiudere nelle bolle dei social.

La conseguenza indesiderata, comunque, è che i messaggi di odio proliferano, le bugie fanno più scalpore di una noiosa verità. Dunque anche se tutti gli organismi deputati a verificare la correttezza del voto si sono espressi – ha vinto Joe Biden – milioni di americani credono che sia tutto un complotto. Questo è un problema, perché così si mette in dubbio la legittimità della democrazia.

Ma la risposta a questo problema non può essere una censura ex-post delle parole di un uomo politico. Oggi pensiamo di essere d'accordo con la decisione di Facebook e Twitter, ma in verità lo siamo perché non consideriamo il contesto e la geografia. Che metodo c'è dietro una decisione del genere? Mark Zuckerberg ha scritto che la decisione serve a evitare "ulteriore violenza". Ma in verità non sappiamo se questo sia vero, né se Zuckerberg abbia, in questo o in altri futuri casi, gli strumenti per valutare. Arriviamo presto al nodo: chi controlla il controllore? Caso ancora più paradossale, Twitter ha riammesso Trump perché potesse pubblicare il discorso di concessione della vittoria. Una logica meramente editoriale, come se in un giornale, al collaboratore un po' matto avessimo detto: "Ok, questa volta puoi mandare il pezzo, ma prometti di non sbroccare".

Pensiamo che sia giusto bloccare Trump ma se invece a sovvertire l'ordine costituito sono i giovani di Hong Kong, cosa diremmo? Del resto, delegare la censura a entità statali o para-statali dovrebbe far venire i brividi anche a noi italiani.

Quando non si sa bene che fare di fronte a un problema complicato, la classica risposta dei politici è: "Bisogna investire nell'educazione e nella cultura", e siamo d'accordo, in generale. Ma la casa è in fiamme ora. L'incendio si spegne in primis con le leggi che esistono già. In Italia, per esempio, l'apologia del fascismo è un reato, e lo deve essere anche online. Invece di invocare nuovi censori, dovremmo pretendere politici (e giudici) in grado di far rispettare le leggi. Se Trump sarà rimosso dalla Casa Bianca non sarà per le sue parole, ma per le sue azioni, e per forza di un sistema ordinato di leggi. Quante volte negli scorsi quattro anni dozzine di repubblicani hanno fatto finta di niente, rifiutando l'impeachment, fingendo di non sapere quel che stava succedendo? La risposta va cercata lì.

Per preservare la libertà del discorso pubblico, la libertà di dibattere e persino di far cambiare idea a chi la pensa diversamente da noi (ci sfugge spesso, ma sarebbe questo il punto del gioco democratico), serve un metodo, e non delle decisioni una tantum. Per ragioni etiche e tecnologiche abbiamo bisogno di regole condivise, di alzare gli standard minimi della convivenza in rete con profili verificati. Se questo fosse un problema economico, potremmo pensare a un sistema di incentivi, ma con la democrazia è ovviamente più complicato. Bisogna studiare. La metafora della pandemia è efficace: non basteranno da sole le mascherine, non basterà lavare le mani, non basterà il vaccino, ma queste azioni messe in fila possono isolare il virus. Allo stesso modo, le varie misure di educazione all'informazione e rispetto ferreo della legge possono riportare i complottisti a un fisiologico 1%, ovvero a diventare ininfluenti, come quello zio cospirazionista che ci infesta le chat familiari.

I personaggi che entrano nel palazzo del potere fanno pena, letteralmente. Non sanno quel che fanno, non sanno che rischiano di sacrificare secoli di lotta per i diritti di tutti. L'unica consolazione è che le istituzioni restano e il resto passa.

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