HOLTSVILLE (Long Island) – Appena ieri il giovane nel pick up Truck correva veloce lungo la strada alla periferia di Holtsville, sfoggiava tre enormi bandiere spiegate al vento. Quella centrale diceva soltanto Trump. Quella a sinistra diceva "Impeach Biden", quella a destra "Trump is President Elect". Non sapeva, il guidatore, che dopo l'umiliante sconfitta di Trump di ieri pomeriggio al Senato – 81 voti contrari al suo veto sul bilancio del Pentagono contro soltanto 13 favorevoli – siamo già entrati nell'era post Trump.
C'è da dire che prima delle elezioni del 3 novembre queste parate di pick up truck erano una dimostrazione di forza per il Presidente. Oggi sono tanto inutili quanto preoccupanti. Non era mai successo prima nella storia recente americana che ci fosse una tale resistenza sia popolare che istituzionale a elezioni presidenziali già convalidate da una cinquantina di tribunali. Corte Suprema inclusa! Corte per di più controllata da una schiacciante maggioranza repubblicana, fra cui tre giudici nominati da Trump. All'unanimità hanno bocciato i ricorsi elettorali perché "privi di fondamento". Anche i giudici di nomina trumpiana hanno sancito il post Trump.
La spiegazione più semplice alla retorica del dubbio, delle elezioni truccate e rubate elaborata da Trump e dai suoi è stata generalmente giustificata dalla necessità di mobilitare il voto per le elezioni di martedì prossimo in Georgia per i due seggi senatoriali che decideranno la maggioranza al Senato. Ma anche questa ipotesi è errata. Lo scontro vede da una parte i due senatori repubblicani, David Perdue e Kelly Loeffler e dall'altra gli sfidanti democratici Jon Ossof e Raphael Warnock. Dei due Warnock, un reverendo che guida la Chiesa Battista che fu di Martin Luther King, ha qualche probabilità di farcela contro la Loeffler.
Per Ossof invece, 33 anni, l'impresa contro Perdue sembrava molto difficile. Fino a ieri. Perché ora lo scenario cambia di nuovo. Nessuno si aspettava che Trump avrebbe fatto saltare il banco affermando, come ha fatto appunto ieri notte, che le elezioni in arrivo il 5 gennaio in Georgia "non sono valide perché le elezioni del 3 novembre erano già state truccate". Questa dichiarazione è demoralizzante, non aiuta a mobilitare il voto e gioca contro la necessità vitale dei repubblicani di mantenere la maggioranza al Senato per controllare le azioni di Biden nell'era post Trump.
A che gioco sta giocando il Presidente in uscita? Vuole forse spaccare il partito? Vuole vendicarsi della clamorosa sconfitta in Senato del suo veto al bilancio del Pentagono? Si era capito nelle ultime settimane che l'unità repubblicana era fragile dopo che il Capo della maggioranza al Senato Mitch McConnell aveva accettato il voto dei grandi elettori del 14 dicembre, che formalizzava la vittoria di Joe Biden. Trump, invelenito aveva detto di essere stato tradito. Aveva accusato di complotto anche il governatore e il segretario di Stato della Georgia, entrambi repubblicani, ma con il peccato originale di aver certificato l'evidente vittoria di Biden nel loro stato. È anche vero che un mese fa a un rally per i due senatori repubblicani a Valdosta, un paesino della Georgia meridionale, Trump sembrava più preoccupato dalla sua elezione che da quelle dei compagni di partito. Ma nessuno si aspettava un suo voltafaccia così traumatico come quello di ieri.
Quel che preoccupa nel contesto repubblicano non è tanto il camioncino che corre con le assurde bandiere al vento, potenzialmente dannose per l'integrità di medio termine della partita politica repubblicana. Preoccupa seriamente la lotta feroce all'interno del partito per definire il parametri di un futuro dei trumpiani. È anche questa la partita in gioco. Altrimenti non si spiega perché un senatore come Josh Hawley abbia chiesto (contro McConnell) di votare in Senato sulla regolarità del risultato dei grandi elettori a favore di Biden il prossimo 6 gennaio altro appuntamento chiave in arrivo. Hawley, 41 anni, il più giovane senatore in carica, ha vinto nel 2018 con l'aiuto del Presidente e dunque una dimostrazione di lealtà può essere comprensibile, ma non fino a questo punto.
Hawley non è un trinariciuto ignorante che spara a zero su tutto. Si è laureato a Stanford con massimi voti ed onori, è andato a insegnare a Londra per poi conseguire un dottorato di ricerca in legge a Yale la prima università in America per il dottorato in giurisprudenza. Come è possibile che un uomo giovane di questo livello culturale e intellettuale possa sottoscrivere una delle più grandi menzogne politiche del nostro tempo? Fosse stato del livello del guidatore del camioncino, si poteva capire: l'ignoranza la diffidenza, il malcontento confluiscono su Internet e danno percezioni falsate della realtà.
Possibile che la richiesta di Hawley finirà con l'essere suffragata anche dal Vicepresidente Pence, che guidarà la riunione del 6 gennaio? Non c'è alcun dubbio che il voto sarà alla fine a favore della ratifica della vittoria di Biden. Ma se Pence (dubito che lo farà visto che pensa anche lui al suo futuro), Hawley e qualche altro senatore repubblicano votassero con un gruppetto di deputati repubblicani schierati anche loro con Trump, si aprirebbe una spaccatura all'interno del partito. Possibile anche che Hawley voglia scaldarsi i muscoli per il 2024. Ma la sua e quella dei suoi compagni di partito irriducibili, sarà una partita perdente perché la meteora di Trump si spegnerà dopo l'inaugurazione di Biden del 20 gennaio (siatene certi: Biden il 20 gennaio entrerà alla Casa Bianca!).
Oggi Trump ha i megafoni aperti perché è ancora Presidente degli Stati Uniti d'America. Che voglia formare un terzo partito? Possibile. Ma dopo il 20 gennaio sparirà dalle cronache e difficilmente, nonostante il suo zoccolo duro di 40 milioni di seguaci, potrà tenere il ritmo di questi giorni. Che questo sarà lo sviluppo lo conferma la brutta sconfitta di ieri al Senato contro il suo veto. 41 senatori repubblicani contro e solo 13 a favore ci danno la misura di quanto Trump sia già fuori gioco. E piano piano, anche di camioncini con bandiere deliranti non se ne vedranno più.
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