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Con Stereonotte la musica scoprì le ore piccole

C'era un tempo in cui la radio, il modo di intendere la radio e le sue trasmissioni musicali, era diverso da quello di oggi. Certo, lo scopo principale era sempre quello di intrattenere, di fare compagnia a chi ascolta, ma era il "modo" in cui farlo che faceva la differenza tra i programmi e le radio stesse. E il "modo" di Stereonotte era diverso da quello di tutti gli altri, come racconta ora il libro Rai Stereonotte a cura di Giampiero Vigorito (Iacobelli Editore, pp. 320, euro 20). Anche perché per alcuni mesi chi la faceva – come il sottoscritto – viveva in un universo parallelo, stando sveglio la notte e dormendo, se possibile, di giorno, cambiando i propri ritmi e le proprie abitudini per adattarsi a una realtà diversa, solitaria, affascinante.

Tutte le notti diversi conduttori si alternavano ai microfoni della Rai, dalla mezzanotte alle sei del mattino, in diretta, per condividere la loro passione per la musica, la loro conoscenza della musica, per parlare di musica, oltre a farla ascoltare. E questo, faceva la differenza. Differenza sostanziale, perché per "fare compagnia" a chi era sveglio, soprattutto a quelli che di notte erano al lavoro (camionisti, tantissimi, portieri d'albergo, infermieri e medici, panificatori, tanto per citare a memoria tra i tantissimi che poi scrivevano, dato che non c'erano email e cellulari, lettere ai diversi conduttori), ma anche alle altre due categorie di sostenitori del programma, gli appassionati di musica e i nottambuli, si parlava di musica, si mescolava la musica alla letteratura, al cinema, alla politica, agli amori, insomma alla vita.

Lo scopo della maggioranza dei conduttori del programma era quello di condividere lo spazio libero e incontaminato della notte usando la musica come chiavistello per aprire porte, armadi, cassapanche emotive, che potevano contenere tantissimi elementi di storia della musica, di informazione, d'attualità. Chi conduceva il programma, insomma, pensava, magari sbagliando, di avere una missione, non di fare soltanto un programma radiofonico. La missione era principalmente far stare meglio chi ascoltava, fargli capire che non era il solo a essere sveglio in quegli orari, ma per farlo era fondamentale che quello che veniva programmato fosse buona, eccellente, straordinaria musica. Musica da far scoprire al pubblico, musica in grado di far sognare, musica che poteva permettere di raccontare storie. Facevamo divulgazione, informazione, cultura, trasmettendo musica di tutti i generi, rock soprattutto, ma anche jazz, avanguardia, folk, blues, reggae, cose innovative e sperimentali, e anche tantissimo pop, di qualità. Ognuno di noi raccontava quello che sapeva, quello che studiava prima di andare in onda, sulla base della musica che sceglieva, portando in studio i propri dischi da casa o, più raramente, andando a cercare cose particolari nella discoteca della Rai.

Non c'era, come è consuetudine oggi, un "programmatore" che sovrastava i conduttori scegliendo da solo la musica che Stereonotte trasmetteva: ognuno di noi arrivava in diretta con i propri dischi, la propria storia, il proprio umore, fattore determinante che condizionava la scaletta e la conduzione. Gli ascoltatori sapevano che dall'altra parte c'era non soltanto una persona che stava facendo il proprio lavoro, ma un essere umano che attraverso la musica raccontava anche se stesso, dipingeva il proprio autoritratto, si "scattava" una polaroid sonora, un'istantanea di quella notte.

Non sto facendo il classico discorsetto nostalgico su "ah, ai tempi miei, la radio era un'altra cosa". No. Parlo più prosaicamente di formati, che come sapete sono come le mode, e cambiano a seconda delle stagioni e dei gusti del pubblico. Bene, il "formato" di Stereonotte, quello che il leggendario e mai dimenticato Pierluigi Tabasso, illuminato direttore del servizio pubblico che fece nascere Stereonotte, era quello di lasciare liberi i conduttori di fare esattamente quello che ritenevano giusto fare, scegliendo la musica e le parole in totale autonomia, in completa libertà.

Così il "formato" di Assante era Assante, come quello di Stefano Mannucci, di Enrico Sisti, di Giampiero Vigorito, di Teresa De Santis, di Giuseppe Videtti, di Giancarlo Susanna, solo per citare i primi che vengono in mente, ognuno con la sua voce, musica, idee, ognuno diverso dall'altro, ogni notte. Un formato che non esiste quasi più, perché è cambiata la radio, è cambiato il pubblico, sono cambiate le tecnologie e i linguaggi e il mondo è andato in un'altra direzione. Un formato che era fatto sostanzialmente di condivisione.

Bene, per concludere: posso dire che Stereonotte, che ho condotto diverse volte dal 1983 al 1987, mi manca? Sì. Mi manca parlare da solo davanti a un microfono di notte, una roba un po' da matti a pensarci su oggi, in uno studio dove sei solo tu è il pazientissimo tecnico che come te non dorme. Mi manca poter far ascoltare la musica che amo a qualcuno che non siano solo i miei familiari o chi sale con me in macchina. Mi mancano le lettere, disperate, esaltate, da confessionale o da maniaco musicale, che arrivavano a centinaia durante quei mesi. Mi manca la musica nelle orecchie in cuffia mentre fuori il mondo, quasi tutto, dorme. Mi manca la radio: farla crea dipendenza, una sanissima, meravigliosa, travolgente dipendenza.

Sul Venerdì del 31 dicembre 2020

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