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Allo Spallanzani dove tutto è iniziato: “Curiamo il Covid anche con i sorrisi”

ROMA – Nel mare in tempesta di questa pandemia, bufera da affrontare con metà volto perennemente celato da una mascherina, gli occhi dei medici e degli infermieri al fronte sono come fari. Si strizzano ai lati, come se volessero sorridere, se la memoria va ai pazienti salvati dal coronavirus. Si fanno lucidi se il racconto vira sulle tragedie personali e familiari di chi non ce l’ha fatta. Quando si posano sul padiglione centrale dello Spallanzani, gli sguardi di Delia, Gabriella, Roberta e Antonella riescono a trasmettere una sorprendente sicurezza. Perché nell’ospedale simbolo della lotta al contagio, tra cure e vaccini, la partita a scacchi contro il Covid-19 è iniziata 338 giorni fa. E l’avversario, se possibile, ogni giorno fa un po’ meno paura.

Il 30 gennaio 2020, quasi un anno fa, due coniugi cinesi varcavano le porte dell’Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma. «Da quel giorno — esclamano in coro le quattro operatrici che guidano questa passeggiata — è cambiato tutto». Il 2020 ha rivoluzionato l’assetto della struttura intitolata a Lazzaro Spallanzani, padre scientifico della fecondazione artificiale. Ha costretto i camici bianchi che hanno raccolto l’eredità del biologo gesuita a capire come gestire le vecchie emergenze e il nuovo nemico. A rimboccarsi le maniche quando i guai si sommano e, per esempio, un paziente con la tubercolosi incontra il coronavirus.

«L’ultimo anno ci ha insegnato ad accettare in fretta questa nuova realtà, senza abbandonare le altre terapie già in atto», spiega l’epidemiologa Gabriella De Carli. Colera, epatite, Hiv, Ebola, Sars, Antrace: qui, lungo la via Portuense, in fondo si è da sempre in prima linea. «Diciamo che ora, con il coronavirus, abbiamo tutti un po’ cambiato expertise», commenta Delia Goletti. La professoressa si divide tra l’ambulatorio e i laboratori e per 4 anni, dal 1992 al 1996, ha lavorato nella squadra dell’immunologo statunitense Anthony Fauci, membro chiave della task force anti Covid americana con il presidente Donald Trump (nonostante gli scontri) e già riconfermato dal successore, Joe Biden. «Ci scriviamo spesso», dice la responsabile dell’unità di Ricerca traslazionale dello Spallanzani. E lo fa con lo stesso orgoglio con cui rivendica il primato del suo ospedale: «I due pazienti cinesi? Prevenzione, istruzione e formazione. Eravamo già pronti».

Preparati al peggio. «Abbiamo avuto subito il sentore che stesse per arrivare qualcosa di grande. Il contagio è apparso subito fuori controllo. Poi, con il lockdown, penso che sia diventato chiaro per chiunque. Abbiamo cozzato tutti con la realtà in quelle settimane. Noi? A quel punto ci eravamo già reinventati», ricorda Roberta Palazzi, che da infermiera è stata promossa coordinatrice sul campo. Un avanzamento che ha dovuto festeggiare da sola, «con una tortina», senza nemmeno poter stringere il figlio. «Ormai è da marzo — racconta Roberta commuovendosi — che non do un bacio a lui e a mia madre. Ho il terrore di portare qualcosa a casa. Per quel che posso, li voglio proteggere».

Così il lavoro in corsia travolge la vita privata: «Ce lo portiamo a casa — ammette Antonella Sangiovanni, infermiera — ho avuto paura, ma ho lavorato sempre in massima sicurezza. Le tute, le mascherine, gli occhiali protettivi… Io sono protetta e se dovesse succedermi qualcosa, non sarà questo ospedale la causa. Per questo continuo a dormire con mio figlio di 4 anni. I contagi che ci sono stati tra noi operatori sono venuti da fuori». Meglio concentrarsi sui pazienti: «Ognuno qui può raccontare la sua storia», sospira Antonella.

C’è quella di Highlander, il 74enne che si è guadagnato il soprannome da immortale dopo essere stato intubato ed estubato, aver subito una ricaduta e visto in faccia la fine. «Con lui e con altri ci sentiamo ancora oggi. Conserviamo i disegni dei nipoti dei nostri degenti. Abbiamo pianto per loro, dato l’ultima carezza», riprende Roberta.

E si capisce subito come siano stati i momenti più difficili ad aver ricompattato una volta di più la squadra: «La gestione clinica, la rete delle malattie infettive, il laboratorio di ricerca. Siamo stati un esempio. Ci vorremmo abbracciare per ricordare tutti gli sforzi, ma teniamo le distanze. Abbiamo saltato caffè e riunioni in presenza, ma siamo qui. La Sars e l’Ebola sono stati grandi test. Ci hanno permesso di rispondere in tempi brevissimi a questa pandemia, di rispolverare le regole d’ingaggio usate per le crisi precedenti», ricordano Gabriella e Delia nel cortile dell’istituto.

Tutto attorno ci sono i 15 padiglioni del complesso, il bunker studiato per rispondere agli attacchi batteriologici minacciati da Al Qaeda e completato durante il lockdown grazie alla Banca d’Italia, i laboratori dove con ReiThera si sta sviluppando il vaccino romano. Sarà pronto per l’estate. Una notizia che, nell’ospedale in cui è partita la campagna di vaccinazione laziale, dona un’ulteriore speranza. Proprio come i numeri dei pazienti dimessi fin qui: 1.664 vite salvate, incluse quelle di tanti giovani.

«L’immagine che mi porterò dentro? Arriva una macchina con una ragazza e due bambini. Mi chiede da dove escano i pazienti e spunta subito il marito, con il camice di carta e i sacchetti con i cambi in mano. Scende le scale, abbraccia i figli e tutti piangono», racconta Gabriella. Che riprende con Delia: «Poi ci siamo noi, l’istituto, e la riunione di inizio febbraio con tutto l’ospedale presente. Ci hanno detto di prepararci all’epidemia. Indimenticabile. Come il giorno in cui hanno chiuso la cappella interna. Ho pensato che ci avesse abbandonato anche Dio. Ma non è così. Prima eravamo visti come il centro in cui si curano patologie legate alla povertà, allo stigma. Ora vorrebbero tutti essere seguiti qui. Siamo diventati un simbolo». Al pari del Gesù Bambino del presepe allestito all’ingresso dell’ospedale: porta il casco per respirare. Lo stesso che si usa nei reparti dello Spallanzani, primo hub anti Covid d’Italia.

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