VARESE. I ragazzi del '20 sono dei combattenti. Anche se pesano solo 4 etti e hanno dita minuscole, vogliono vivere, vivere. Nel box 10A, una mamma tiene la mano sulla testa di suo figlio, o figlia. Quella testa è piccolissima, la mano la copre tutta, e la piccola cosa che è questo neonato apre e chiude gli occhi, e storce pure il naso (dove una pinzetta da microbi e una cannula fine insufflano ossigeno, così si intuisce). Intanto lei parla, dice cose che per via del vetro non si possono sentire, ma è facile capirle: resisti, cresci, ti porterò a casa, diventerai grande. E gli altri, nati giusti al termine della gravidanza, pure questi, combattenti. Nati nell'anno peggiore, in stanze con un cartello che dice Covid, si entra bardati a dovere, si esce con la certezza che lì dentro una vita è cominciata e deve continuare, al meglio. La pandemia ha colpito duro anche questa parte della Lombardia, eppure all'ospedale Filippo Del Ponte di Varese si continua a nascere, ostetriche e medici non hanno smesso di lavorare un giorno. Solo, hanno rivoluzionato un ospedale, una organizzazione, i protocolli e la loro stessa vita, se è vero – ed è vero – che in un anno quasi nessuno ha fatto ferie.
Il mondo è cambiato, il Covid ha condannato tanti a morire in solitudine, non è che per i neonati e le loro madri le cose siano così diverse: per le nascite, le regole impongono lontananza, più che vicinanza. Molti strati di protezione, visiere e plastiche, più che abbracci. Lontani i parenti, e anche i compagni, che pure si presentano all'ingresso con il sacchetto della biancheria pulita e un mazzetto di fiori, ma c'è solo il tempo di un saluto veloce, la neomamma scompare dietro la porta. "Il papà può solo assistere al parto, ma dopo deve uscire. Però, noi facciamo tutto il possibile per attutire l'impatto del coronavirus" spiega il professor Massimo Agosti, direttore del dipartimento Donna e Bambino. Fino alla dimissione il padre non rivedrà il figlio, e pensare che "il percorso nascita dovrebbe essere tutto antitetico alla solitudine. Come diceva Gandhi: ci vuole un villaggio per fare un bambino", ma il villaggio è adesso quasi irraggiungibile, padri, nonni e famiglie chiusi in casa.
I tablet rimandano immagini di pupi che dormono, o strillano, o semplicemente vivono nelle loro culline da Lilliput, aspettando di superare il chilo di peso, e poi avanti di un altro etto, e un altro ancora. Nati nel punto nascita più grande della provincia di Varese – con le sedi di Cittiglio, Tradate, Angera – in una fabbrichetta da 3.900 parti l'anno, quest'anno 3.800 e qualcosa, sono tutti bambini concepiti durante la pandemia. La Asst Sette Laghi può andare orgogliosa di non aver mai respinto una donna in gravidanza, mai disdetto un esame o visita, tutto è andato avanti ma "spostare i reparti non è stato semplice" dice Giusy Vita, coordinatrice ostetrica, "sono stati mesi convulsi, di ansie e paure. Ce l'abbiamo fatta, ce la stiamo facendo". E addirittura Giusy vede degli aspetti migliori rispetto al passato: "Il rapporto esclusivo madre-bimbo. Una volta al pomeriggio c'erano le visite, la mamma, la suocera, le amiche. Oggi vedi queste donne sempre con il loro bambino in braccio, così concentrate", e tranquille.
"È vero, manca la triade" dice Nellina Iovino, coordinatrice ostetrica della sala parto, "cioè madre padre figlio. E le donne positive sono più sole, anche se l'ostetrica segue tutto il travaglio, e se anche dura 10-12 ore, lei è sempre lì", si chiama assistenza one-to-one, questo per spiegare che nessuna è mai abbandonata a se stessa, visto che molte temono di partorire da sole, contagiarsi, contagiare il bambino, sono mille le paure normali di chi sta per avere un figlio, figurarsi adesso con il Covid. "Però arriva la vita, in un momento in cui siamo tutti così provati dalla pandemia" dice Iovino, "abbiamo fatto fatica ma l'anno è volato, e penso anche al personale di supporto che decontamina gli ambienti, ai test continui, ai turni che erano di otto ore e sono diventati di dodici". Una fatica grande, a Varese come altrove, queste strutture hanno macinato parti e interventi, e tutto è andato avanti. La vita, è andata avanti.
"Pensi a questo: abbiamo quattro tipologie di pazienti. Le asintomatiche negative al Coronavirus. Le asintomatiche positive. Le sintomatiche positive. Le sintomatiche negative. Devono stare in quattro posti diversi, è logico. Devono esserci percorsi differenziati, équipe dedicate. Sale parto Covid e sale parto Covid free, sale operatorie Covid e Covid free". Chi ha studiato la riorganizzazione è un tipo alto e magro che però qui non vorrebbe comparire ("Non scriva il mio nome!"). Si chiama Fabio Ghezzi, ha 54 anni, è direttore della rete integrata materno infantile della Asst Sette Laghi (e professore di Ginecologia e Ostetricia all'università dell'Insubria). Uno schivo: "Scriva che l'importante è la squadra, senza quella non si va da nessuna parte". Telefona ad Antonella: "Vieni su, subito".
Arriva Antonella, di cognome fa Cromi, una ragazza bionda del '71, pantaloni e camice verdi, responsabile della Patologia della gravidanza (e professore associato). "Come va? Un conto è il parto normale, tre giorni e tutti a casa. Un conto sono le donne che hanno complicanze severe, che stanno qui anche due mesi, e magari sono alla seconda gravidanza e hanno un bambino piccolo a casa. La solitudine è un problema", il Covid peggiora le cose, "la videochiamata non è uguale a una visita, a un abbraccio". Ma "rispetto a chi lavora in altri ospedali, noi abbiamo la sala parto, lì vediamo anche la vita, non solo la malattia e la morte". Ghezzi: "Spesso però affrontiamo i tumori ginecologici, quindi ci capita di vedere la fine di una vita e l'inizio di un'altra". Il professore ha imparato questa e molte altre cose a Detroit, a Basilea, a Lugano, alla Ben Gurion University, "16 mila parti l'anno, in mezzo al deserto del Negev". Nascere non è sempre facile, anzi, "ma la forza della vita è preponderante, la gioia della nascita, uguale. Dovrebbe vedere la luce negli occhi di una donna che ha appena partorito. È una felicità unica, sa? E non mi citi, grazie". Così se ne va, e che bel lavoro fa, professor Ghezzi.
Sul Venerdì del 31 dicembre 2020Original Article
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