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“Più accoglienza per il turista in cerca di natura: così ripeteremo il boom di visite in appennino”

Guido Sardella, coordinatore della riserva regionale e Oasi Wwf dei Ghirardi, Guida ambientale escursionistica, illustratore naturalista professionista, fotografo, divulgatore, da anni in prima linea per la salvaguardia e la diffusione della cultura ambientale dell'appennino.

Da giovane visionario appassionato di natura, i primi progetti con la Lipu negli anni '80, fino a diventare un punto di riferimento per la cultura ambientale regionale: dove e da chi è nata questa passione, che si è trasformata in uno stile di vita, in una professione?

"La passione per gli animali e la natura è innata ma è stata coltivata dai miei genitori con vacanze nei parchi nazionali alpini ed esplorazioni intorno a casa, in quella campagna appena fuori dalla porta di Borgotaro che negli anni '70 era ricchissima di uccelli e fiori selvatici. Quando avevo undici-dodici anni ho iniziato a scrivere un diario naturalistico delle mie osservazioni e ad allontanarmi sempre di più lungo il fiume, scoprendo flora e fauna. Nel 1983, a 16 anni, ho partecipato alla nascita della sezione Lipu Valtaro e ho iniziato a occuparmi da volontario della neonata Oasi dei Ghirardi, e si può dire che da allora non abbia mai smesso di farlo. Parallelamente, la passione per il disegno, che da bambino mi serviva per 'registrare' le osservazioni, è diventata una professione che svolgo per musei, parchi e Amministrazioni pubbliche. Ad esempio l’estate scorsa ho partecipato all’allestimento del Museo del Mare Antico e della Biodiversità a Salsomaggiore e sto lavorando per i percorsi del Geosito Po e Parma Morta a Sorbolo Trecasali".

Con la cooperativa Pan di Borgotaro, nei primi anni '80, parlavate già di turismo ambientale.

"Sicuramente l’interesse per l’escursionismo, la natura, le vacanze nel verde non era capillare come oggi. Vivevamo un momento di fermento dal punto di vista della identificazione e della segnatura dei sentieri, supportati da progetti nazionali come il Sentiero Italia e finanziamenti europei come i Pim. Ricordo la nascita di molti agriturismi storici nella nostra valle. Nel 1996 abbiamo dato avvio alla gestione per il Wwf Italia dell’Oasi dei Ghirardi e dell’ufficio turistico di Borgotaro per l’Amministrazione comunale, con buoni risultati di visite considerando che, per fare promozione, non c'era internet e bisognava rincorrere con fatica giornalisti di testate piccole e grandi per riuscire a far pubblicare qualche notizia. Quello che mancava era la consapevolezza generale del valore della nostra montagna intesa come luogo e paesaggio e non solo come enorme catasta di legna da ardere, di acque potabili da intubare e imbottigliare, di superfici da edificare a basso prezzo. Il rifiuto, allora, della realizzazione di un parco regionale di crinale nasceva da questa mancanza di consapevolezza".

La Riserva dei Ghirardi, che tu coordini all'interno del sistema dei Parchi del Ducato, è stata letteralmente presa d'assalto nell'estate 2020 del Covid.

"Abbiamo potuto misurare questo incremento contando le presenze di escursionisti che comparivano nelle nostre fotovideo trappole, strumenti che utilizziamo per studiare la fauna, paragonando il periodo estivo del 2020 all’anno precedente: +385%. Un numero confermato anche dal sold out dei posti letto in alberghi, agriturismi, appartamenti privati che si è visto in alta valle quest’estate. Il territorio della Riserva è utilizzato anche dagli 'indigeni' in modalità diverse. Se i turisti preferiscono percorsi escursionistici segnati e partecipare alle visite guidate, i locali preferiscono passeggiare o correre nella strada che porta a Case Ghirardi. Basta guardare i feed Instagram di molti borgotaresi, albaretesi, bedoniesi per vedere che la Riserva è una meta frequente di passeggiate domenicali in ogni stagione. Il vero successo della gestione della Riserva dei Ghirardi è stato trasformarsi dalla principale meta turistica di Borgotaro a un servizio di visite guidate, laboratori per bambini, corsi di fotografia, arte, piccola agricoltura, eventi culturali utilizzato principalmente dai valtaresi".

Nel tuo lavoro di guida sono più importanti le parole o le visioni?

"Le persone sono affamate di storie e le storie naturali sono le più interessanti perché noi siamo sempre i protagonisti, nel bene e nel male. Il lavoro di interprete ambientale, che svolgo nella Riserva, è quello di un mediatore tra le persone, le specie, e fenomeni spesso piccoli o invisibili. Vedere un nido oppure il foro di uscita di un cerambice da un tronco non basta: senza il racconto l’emozione non nasce. I questo non ci sono segreti ma la preparazione sul campo, tante ore di osservazione, monitoraggi, censimenti e altrettante ore su libri o tablet per i documentari".

Quali possono essere gli sviluppi futuri della Riserva? Si arriverà ai tanto desiderati 600 ettari?

"I 600 ettari sono la dimensione originaria dell’Oasi. Quando è nata la Riserva, nel 2010, hanno aderito all’area protetta solo alcune delle proprietà, per circa 400 ettari. Dopo dieci anni di vita della Riserva, ci sono diverse proprietà interne ed esterne all’Oasi che chiedono di entrare in Riserva, è una occasione di ridisegnare i confini dell’area protetta in maniera condivisa tra proprietà, amministrazioni e portatori di interessi. Dopo 40 anni, del resto, i confini originari non hanno lo stesso significato di allora. Nati per tutelare una comunità animale molto diversa da quella di oggi, lepri e volpi erano le specie più grandi presenti mentre oggi ci sono cervi e lupi, possono essere ripensati. Oggi è necessario tutelare soprattutto gli ambienti prativi aridi e poco fertili, dove crescono decine di specie di orchidee, vivono ramarri e saettoni, nidificano pernici, quaglie, tottaville e succiacapre e volano centinaia di farfalle, mentre su certi ambiti boschivi può essere modificato il vincolo di tutela per permettere la gestione del cinghiale che, quando è in sovrannumero, non è devastante solo per l’agricoltura ma anche capace di estinguere orchidee, distruggere ambienti acquatici ricchi di libellule e anfibi, predare nidiacei di uccelli terricoli sempre meno comuni".

Parchi, aree protette e turismo ambientale: come prosegue la relazione, non sempre facile?

"Durante la pandemia l’importanza del paesaggio naturale come approdo necessario per la salute fisica e mentale della nostra specie è diventata evidente a tutti. I parchi naturali sono diventati meta di massa, con problemi evidenti a chi si occupa di conservazione. Un prato pieno di fiori selvatici è una fonte di reddito per l’allevatore, è un habitat per il naturalista, è un morbido pavimento per chi vuole fare un pic nic. Può essere tutte e tre le cose, ma c’è bisogno di rispetto da tutte le parti per far coesistere, in tempi diversi, le tre cose. Occorre divulgazione, a tutti i livelli, per far capire la necessità del rispetto delle esigenze dell’altro e dell’ambiente. C’è anche bisogno di differenziare i livelli di tutela: in passato abbiamo creato aree protette per le necessità di conservazione di specie e habitat importanti, in via di estinzione o presenti solo in un certo posto, e da nessuna altra parte nel mondo, come la Primula apennina dell’alta Val Parma e zone circostanti. Oggi penso che ci sia bisogno di creare 'aree protette' per il turismo outdoor, per chi vive in città e vuole stare una settimana in tenda non in un camping attrezzato ma in un bosco, sulla riva di un ruscello, e più in generale per chi vuole camminare, correre, andare a cavallo, in mountain bike, in canoa in paesaggi non antropizzati, comprando il cibo direttamente da chi lo produce. Aree di questo tipo, create in zone a bassa densità di popolazione ma senza la presenza di habitat e comunità naturali particolarmente sensibili, sarebbero importanti attrattori turistici e contemporaneamente ridurrebbero la pressione antropica su aree nate per la conservazione. Il modello è quello degli State Park americani, che dirottano la pressione delle attività outdoor dai parchi nazionali più famosi".

Tante persone, soprattutto alla lucde di un anno così travagliato, sembra essersi avvicinata maggiormente al valore dell'ambiente. Eppure l'Appennino, il polmone verde a due passi dalle città più inquinate d'Europa, sembra sempre più in crisi. Troppo tardi per un cambiamento di tendenza?

"Tutt'altro, credo che l’estate appena trascorsa possa essere stata l’anno zero di un nuovo tipo di turismo in appennino. Già adesso sento di persone che cercano casa per l’estate, quindi spero che quanto successo l’estate del 2020 non sia stato un fuoco di paglia. Per questo occorre per l’appennino ovest parmense maggiore accoglienza per il turista in cerca di natura: alla Riserva passo i mesi estivi cercando di dirottare chi chiede informazioni verso le montagne, i sentieri e i percorsi della valle. La Riserva, infatti, in luglio e agosto non è, specie nelle ore diurne, l'ideale per fare escursioni, vista la quota relativamente bassa, l’esposizione e l’abbondanza di insetti, ma il solo fatto di essere un’area protetta la rende meta ricercata da chi per un giorno o più 'fugge dalla città' in cerca di natura. Tutto intorno ci sono montagne belle e servite da reti di sentieri comodi e ben segnati, il Molinatico, il Barigazzo, il Gottero, il Pelpi e tutta l’area del Penna-Nero-Ragola. Eppure la mancanza di una 'insegna' territoriale come quella di un parco le rende invisibili a chi non ha quel minimo di competenza escursionistica per trovarne informazioni su Internet o le app specializzate. Per le altre stagioni ci sarebbe da rendere più visibili e fruibili tutte quelle testimonianze storico-culturali che punteggiano il territorio ma sono scarsamente percepibili: mulini, essiccatoi per le castagne, vecchie miniere, mulattiere, case torri. Potrebbero essere messe in rete in un ecomuseo, e fruite tramite le numerose guide ambientali presenti. Il Museo del Seminario di Bedonia potrebbe essere il centro di raccordo per una esperienza museale diffusa di questo tipo, e le per fortuna numerose associazioni culturali esserne responsabili dell’animazione. C’è tanto lavoro da fare, e questo mi sembra una buona cosa!".

Dopo mezzo secolo di impegno, di lotte, di sacrifici, Guido Sardella come si sente: ottimista o pessimista?

"Naturalmente ottimista, se guardo al futuro e non mi soffermo sul passato. Mi spiego: se penso alla mia infanzia, ricordo che c’era la lontra nelle acque del Tarodine che scorreva accanto alla mia casa. Intorno a Borgotaro nidificavano le allodole, i fanelli a centinaia, fiorivano diverse specie di orchidee anche rare. Adesso questo non c’è più, sepolto sotto capannoni a volte sfitti o anche sotto cespugli e alberi di boschi in continua espansione. Molto difficilmente potremo recuperarne la presenza. Ma la valle è piena di caprioli, daini e cervi, e ci sono i lupi a cacciarli, e questo quaranta anni fa era impensabile. In quegli anni io e altri amici eravamo andati al confine della Cortina di Ferro, tra l’Austria e l’Ungheria, per vedere l’airone bianco maggiore, allora raro ed esotico per chi abitava in Italia. Dopo appena dieci anni la stessa specie abbiamo cominciato a poterla osservare in Taro a Sugremaro ed oggi è così comune, in inverno, da venire a pescare nei rigagnoli che incidono i boschi qui alle spalle di Albareto. Non possiamo recuperare tutto quello che c’era nel passato ma possiamo ricostruire un ecosistema funzionate e sano, con una ricchissima biodiversità e dove l’uomo, residente e in visita, possa vivere accanto alla natura. Occorre lavorare rispettando e riconoscendo le esigenze degli altri e del pianeta che ci ospita".

Mauro Delgrosso

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