Questa storia me l’ha raccontata Fausto, pittore, sempre in crisi, dice che parla con Lucio Fontana in sogno. Per dimenticare nostalgie, errori, dolori e amori, dice Fausto, ha preso l’abitudine di vagare nelle periferie delle città: di Roma e Napoli conosco ogni luogo distrutto e ricostruito, dice, ogni cambiamento urbanistico, ogni spiazzo abbandonato. Sto in giro la notte, ora poi che la notte, col coprifuoco, ha ripreso quel suo andamento medievale. Amo molto le stazioni dei treni: spesso ho creduto di riconoscere, nei visi dietro i vetri di qualche treno in partenza, una persona conosciuta e poi dimenticata. Visi che s’incarnano in quei pochi che dopo le 5 di mattina iniziano a popolare il ventre delle stazioni, in attesa di un treno che li porti da qualche parte – e via da loro stessi. Presenze invisibili, le chiama Philip Dick e in genere vengono dallo spazio. Fra artisti e intellettuali mi sento a disagio, dice: mi trovo bene solo con quelle parvenze aliene. Ho dato via i miei quadri, alcuni li ho distrutti, mi parevano muti: mi sprofondavano in una tristezza ardente e pensavo che non avrei più dipinto. Da qui all’insonnia il passo è breve. Ho ripreso a vagabondare per stazioni, mi sento Monica Vitti in Deserto Rosso, dice, manca solo qualche ciminiera e gli acquitrini rosa. In queste notti mi spingo lontano, non si vede anima viva, ci si potrebbe credere in guerra o in una città abbandonata di cui, come a Cerveteri, restasse solo una necropoli vastissima.
Tra tutte le stazioni, l’Ostiense mi attrae irresistibilmente. Qui i treni odorano d’aria marina, hanno costeggiato il mare. Le alte strutture fasciste, i mosaici dell’atrio, le panchine di travertino lisce, mi sono familiari. È quasi Natale, non nevica da anni; ora, seduto sulla solita panchina, penso di cambiare stile pittorico, per esser più nella vita che nell’arte, quando mi si siede accanto un Uomo che all’apparenza mi sembra di conoscere. È alto, vestito con eleganza, bello un tempo, con i capelli grigi ancora in onda morbida. « Sprechen Sie Deutsch? » mi chiede, « … nur ein bisschen » , dico, mi dice Fausto. Allora parlerò in italiano, dice l’Uomo. È specialista di pittura europea del primo ottocento. Insegna a Berlino. Ha studiato soprattutto Caspar David Friedrich. Sono ipnotizzato dalle sue atmosfere, dice, da tutta quella gente di spalle che guarda il mare o un tappeto di nuvole dall’alto di un picco montano o la rovina gotica di una cattedrale nella neve. Ho un dono, quello di far dimenticare il passato a chi lo desidera, so cancellare la trama di dolori, errori, nostalgie di cui si compongono i ricordi. Faccio dimenticare le cose che non furono e che avrebbero potuto essere. I veleni, anche: e meglio di uno psicanalista. È quello che lei vuole? È tutto gratuito. Lo voglio, dice Fausto. Bene, dice l’Uomo, è la vigilia di Natale e tutto è possibile. Ma lasci che prima le racconti una storia.
Verso la fine della guerra fui contattato da un ufficiale dei cosiddetti Monuments Men, il cui compito era recuperare, proteggere e restaurare il patrimonio artistico europeo. Tra 1943 e ‘44 segnalavano alle truppe alleate i monumenti o i musei da non bombardare, dice l’Uomo, ma non sempre furono ascoltati come nel caso di Amburgo. Dalla Kunsthalle della città anseatica molti quadri, dopo il bombardamento, scomparvero. Tra questi c’era un capolavoro di Friedrich: Il mare di ghiaccio, conosciuto come Il Naufragio della Speranza. Un titolo affascinante nel suo richiamo simbolico. Nel quadro si vede una nave spezzata e inabissata nella morsa dei ghiacci, che occupano quasi per intero la scena. È una delle navi della Royal Navy naufragate al Polo Nord, dice l’Uomo. Il ghiaccio, cioè la natura, ha il sopravvento sull’uomo, non c’è speranza alla nostra fragilità in balia degli eventi naturali o storici: una guerra, un’epidemia. Molti in Germania credono che Speranza sia il nome della nave, anche mio padre lo credeva: diceva che mentre la Speranza naufraga, il naufrago spera. Noi siamo quei naufraghi in questa Germania travolta dalla storia, diceva, noi siamo quella nave che cerca una via nel ghiaccio. E come i naufraghi di quella nave continuiamo a sperare. Questo pensiero attraversava la mente di mio padre nel vagone blindato che lo portava verso i lager in Polonia? La perdita di quel quadro mi ossessionava: mi pareva che l’Europa avesse perso uno dei suoi punti di orientamento, filosofici, figurativi, una voce che ci scandaglia in profondità. C’era anche un motivo personale: le parole di mio padre.
Esaminai archivi, documenti, furti e ritrovamenti: il quadro non si trovava. Alla ricerca di quel quadro legato al ricordo di mio padre, devo se rimasi appeso alla vita dopo le atrocità della guerra, i morti, lo sradicamento, la Shoah: avevo l’impressione di non appartenere a niente e a nessuno, avrei potuto andarmene alla chetichella e con sollievo.
Gli anni passavano, dice l’Uomo, e sorgeva il bisogno di dare all’atrocità della memoria una sorta di riposo. Dopo la caduta del nazismo, fui contattato dallo Smithsonian Institute, con la segnalazione di una villa vicino a Firenze, tra il Chianti e il Valdarno, dove erano arrivati nel 1944 non meglio precisati cassoni da Amburgo. Nella villa avevano trovato rifugio e salvezza i quadri degli Uffizi. Sono partito con lo spirito del naufrago che spera. Potevano essere i quadri di Amburgo, trafugati per salvarli dai capaci artigli nazisti? Studiai la pianta della villa, confrontai la planimetria delle stanze, delle cantine, dei solai. Mancava un corridoio. Lo trovai dietro una porta sigillata e ostruita da un armadio. Entrai. Da una cassa, sepolta sotto una montagna di libri, ripescai dall’abisso del tempo Il mare di ghiaccio con la sua Speranza naufragata.
Così lei ha salvato la Speranza? dico con un sorriso. Ho salvato anche i miei ricordi, dice l’Uomo. Lo sa che era la vigilia di Natale? Ci pensi bene al dono dell’oblio. E scompare nel nulla. E dopo cosa hai fatto? Chiedo. Ho ricominciato a dipingere.
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