Chi lavora nella sanità sa che gli ospedali non chiudono a Capodanno, e infatti anche quella sera del 31 dicembre 1991 al Pronto Soccorso di Canicattì arriva un’ambulanza con un giovane di vent’anni, ferito gravemente da un proiettile che gli ha perforato un polmone. Era al Bar 2000, dice, a Palma di Montechiaro, ad aspettare un amico
per festeggiare il Capodanno, quando un uomo è entrato e si è messo a sparare.
E infatti in quel baretto in via Roma, a pochi passi dal bellissimo palazzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, c’è stata una vera strage: sette feriti, tra cui un bambino di nove anni, figlio del proprietario, e due morti sul pavimento.
Ma non è tutto vero. La strage c’è stata, e fa parte della cosiddetta “Faida del Gattopardo”, appunto, una guerra di mafia che oppone le famiglie locali agli Stiddari, i mafiosi di Gela. Ma Salvatore Caniolo, il giovane con il polmone perforato, non era lì per caso. È uno degli uomini scesi da una Fiat Uno bianca rubata dieci giorni prima ad Agrigento. Due sono rimasti in auto, ad aspettare col motore acceso, e uno si è fermato sul marciapiede a fare da palo, con la pistola sotto il giubbotto di pelle. Salvatore è entrato, ha imbracciato una mitraglietta calibro 9 e si è messo a sparare.
Duecento colpi, diretti soprattutto a Felice Allegro, 61 anni, ritenuto uno dei capi della cosca rivale, che viene ucciso sul colpo proprio davanti al bancone, ma quando si spara a raffica dentro un bar affollato di gente che a quell’ora, poco dopo le otto di sera, si saluta o si prepara ad andare a festeggiare la mezzanotte, i proiettili fanno un po’ quello che vogliono loro. E infatti un po’ di gente cade a terra ferita, mentre gli altri si gettano sotto i tavoli, urlando terrorizzati.
Tranne uno. Nel bar, casualmente, c’è un uomo che di mestiere fa la guardia carceraria. Si è fermato un momento per prendere un caffè, ma ha con sé la pistola d’ordinanza e appena Salvatore si mette a sparare salta dall’altra parte del bancone, estrae la sua Beretta 7.65 e risponde al fuoco.
Colpito in pieno petto, Salvatore scappa fuori mentre gli altri lo tirano dentro la macchina e partono sgommando. Ma è troppo grave, così lo lasciano alla guardia medica di Camastra, un paesino ad una ventina di chilometri, anche quella aperta nonostante il Capodanno. Da lì a Canicattì, in ambulanza e poi a Enna. Dove non fanno in tempo ad arrestarlo che muore.
È la terza vittima di quella che verrà chiamata la strage di Capodanno. Perché sul pavimento del Bar 2000, c’è un altro uomo, un giovane di trent’anni che si chiama Giuseppe Aliotto. Era lì per caso, per un caffè, nel posto sbagliato al momento sbagliato, come tante volte accadeva in quei brutti primi anni 90 nelle terre infestate dalle mafie, e come accade ancora, non solo in quelle.
Il suo è uno dei nomi che vengono letti il 21 marzo, nella giornata in ricordo delle vittime di mafia. Vittime innocenti.
Uno dei 944.
Sul Venerdì del 31 dicembre 2020
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