Avrei voluto conoscerla viva Agitu Ideo Gudeta. Sono convinta che non mi avrebbe mandata via, se fossi andata a trovarla sui pascoli delle capre mòchene che allevava allo stato brado. Avrei ascoltato i suoi richiami, quegli oop così musicali gridati verso l’alto per invitarle nella stalla all’ora della mungitura. Una razza antica, importata forse in Trentino dai carbonai tedeschi, ma ormai a rischio di estinzione.
Una donna sola, immigrata, anzi rifugiata, ha scommesso su questi animali a bassa resa di latte. Agitu era una dolce pastora, ma anche una imprenditrice determinata e consapevole, laureata in Sociologia a Trento. E aveva la bellezza di una principessa nera. Dopo gli studi e il rientro in Etiopia non tirava aria buona per lei, attivista in lotta contro l’accaparramento di terre agricole da parte delle multinazionali. Rischiava l’arresto o peggio, così era tornata in Italia e si era inventata le capre felici. Se ci fossimo incontrate avrei conosciuto anche loro, notando le differenze e le somiglianze con quelle che la mia famiglia aveva quando ero bambina.
Chissà se l’odore è lo stesso. In un’intervista Agitu parlava della loro intelligenza metodica, sfatando il pregiudizio della capra stupida. Solo chi alleva animali sa quanto siano diversi l’uno dall’altro, nel temperamento, nella condotta. Proprio come le persone. Noi abbiamo avuto anche una mucca snob, una volta. Agitu ha iniziato con poche capre e quando è arrivata a 70 diceva di riconoscerle una per una, forse anche alla fine, che ne aveva 180. Nessuno sa prendersi cura degli animali come una donna, ma il suo era un dono speciale.
La pratica millenaria della domesticazione si fonda prima di tutto su un’empatia istintiva e profonda, tra noi e loro. Non danno la stessa quantità di latte a chiunque. Si affidano alle mani di chi li ama, a una tenerezza. Poi vengono le tecniche, la cultura.
A lei non mancava niente, se n’era andata anche in Francia a studiare nei caseifici di qualità. Era mia madre con le dita nel siero e nella cagliata, era la pastorizia africana in mezzo al nulla e l’imprenditrice sorridente di oggi: formaggi, yogurt, cosmetici a base di latte caprino bio nei suoi punti vendita. Tutto a chilometro zero, la filiera corta di una passione.
Adesso è icona, modello di integrazione per migranti – specialmente le donne la piangono, simbolo. Non abbastanza ricordata – forse perché lei non la faceva pesare – è la fatica di una vita sulle terre alte, in salita, con gli animali da accudire ogni giorno, a Natale, a Capodanno, quando la neve taglia la faccia e non ti fa camminare. E non tutti i vicini di Agitu erano così amici e solidali come Alberto e Maura, che l’hanno trovata morta. In montagna la solitudine di una donna, quando è scelta, può risultare ancora scandalosa al punto da farle ritrovare una capretta morta, le gomme tagliate, una denuncia. Può essere, infine, fatale. E il tradimento è arrivato dalla parte meno attesa, il lavorante. Di certo non si è mai abbastanza pronte a difendersi da chi si sta aiutando.
Scrivo con un senso di perdita e ingiustizia, come a ogni femminicidio. Ricordo l’assassinio della grande primatologa Dian Fossey, il 26 dicembre 1985 nel Virunga. Allora ero giovane, piena di rabbia. La mia è una libera associazione, per via degli animali che lì erano i gorilla di montagna e qui le capre mòchene, accomunati dal rischio di estinguersi. Immagino anche il lutto delle creature che Agitu ha amato, il loro spaesamento senza di lei, per quanto accudite da amici e vicini. Se per una volta avessi il potere di una inconcepibile reversibilità, la riporterei alle sue orfane. Se ci fossimo conosciute ci saremmo raccontate delle cose sulle capre e su di noi, ne sono certa. Ma la sua morte è la nostra unica occasione.
Spero che il progetto di una piccola economia sostenibile in Val dei Mochèni continui come lei l’aveva pensata. In questo senso si pronunciano gli abitanti della zona, una comunità addolorata. Non sarà facile, vedremo alla prova del tempo se la sua eredità verrà raccolta. Intanto sarebbe bello dedicarle un sentiero di montagna – mi sembra che Sentiero di Agitu suoni bene – per ricordare i suoi oop oop oop che richiamavano le capre, e la sua vita qui. E magari in qualche villaggio trentino o anche a Roma o Milano potrebbe starci una via o piazza Agitu Ideo Gudeta. Lo proporrò al mio Comune, per cominciare.
Di quello che ha detto in un italiano correttissimo, dalle zeta appena addolcite in esse, vorrei restasse ciò che si è appena interrotto senza perdere in verità: “I sogni non finiscono mai, è un continuo sognare e realizzare”.
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