MILANO – Non capita tutti i giorni di accompagnare alla porta un socio straniero da 3 miliardi di dollari. Per la piccola Majotech di Tavernerio, in provincia di Como, è sembrata però la scelta più naturale possibile. Staccando un assegno da 5 milioni di euro, Andrea Terracini e un altro piccolo socio di minoranza si sono ricomprati il 51% che nel 2012 avevano ceduto a Jihua, colosso cinese controllato dallo Stato, quotato anche alla Borsa di Shanghai. Una scelta di cuore ma soprattutto di business quella di Terracini, amministratore delegato e ora anche quasi proprietario unico dell'impresa tessile fondata nel 1941 dal suo nonno materno. "Non è stata un'operazione nostalgia, mi ha mosso soltanto la volontà di dare una continuità e una visione all'azienda", spiega in tono pragmatico, provando a scansare qualsiasi facile sentimentalismo. In altre parole: un riacquisto non per difendere a priori la propria storia, ma per proteggere le qualità di un'eccellenza tutta italiana, che può esprimersi al meglio puntando sulla qualità e sulle nicchie di mercato piuttosto che sulla grande produzione di massa, dove invece rischiava di portare la nuova proprietà.
"Il limite con queste grandi imprese pubbliche cinesi è che ogni quattro anni la politica cambia il management", sottolinea Terracini. "E la strategia che avevamo impostato con i vertici iniziali poi è cambiata con l'arrivo dei nuovi manager. Allora ci siamo detti: 'ricerchiamoci la nostra autonomia'". Un'autonomia che punta soprattutto sulla qualità e sull'eccellenza più che sul mercato dei grandi numeri. Oggi l'azienda è specializzata soprattutto nella creazione di tessuti innovativi, frutto di un lungo lavoro di ricerca del proprio centro di progettazione, dove lavorano 7 dei 45 dipendenti dell'impresa.
Tessuti realizzati sia per grandi marchi come Supreme, Gucci o Hermès, ma anche per gli abiti e le divise dell'esercito, di cui l'azienda è fornitrice da diversi anni. E proprio la ricerca per il settore militare finisce per tornare utile anche per i tessuti legati all'abbigliamento "civile". "Di solito diciamo che il mondo militare è un po' come la Formula 1 per le automobili: lì sviluppiamo le cose più estreme che poi in alcuni casi vengono recepite per i tessuti destinati anche ad altri tipi di abbigliamento".
Il filo conduttore negli anni è sempre stato quello dell'innovazione e nella ricerca. Anche quando, tra gli anni '60 e gli anni '70, l'impresa è stata fornitrice della Poste per la realizzazione dei grandi sacchi che contengono le lettere, che venivano realizzati già con la bandiera italiana stampata con dei telai speciali che di fatto consentivano già di ottenere il prodotto finito. "È stato il mio primo lavoro, quando sono entrato in azienda nel 1984 per fare la gavetta", racconta Terracini.
Ora le sfide sono da un lato continuare ad internazionalizzarsi, dall'altro rimettersi in carreggiata dopo un 2020 molto pesante per il mondo delle imprese. Durante l'emergenza Covid l'azienda ha comunque messo a disposizione le proprie tecnologie e i propri macchinari per rispondere all'alta esigenza di tute, camici e mascherine, divenute introvabili nella prima fase della pandemia. "A marzo ogni giorno ricevevo 10-15 telefonate da medici e direttori di ospedali che lanciavano grida di dolore allucinanti per la mancanza di dispositivi", racconta Terracini. "Noi devo dire che siamo stati molto bravi, in tre settimane siamo riusciti a mettere a punto un prodotto certificato, tutto con materie prime italiane". Un risultato però impossibile senza il sacrificio di tutti i lavoratori: "C'è che si è messo a lavorare la domenica e mi diceva: 'Non mi interessa lo straordinario, sento per la prima volta che sto facendo qualcosa di utile'".
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