Roberto Bettega, 70 anni il 27 dicembre, apparve durante un acquazzone. Erano in campo, per quel che si poteva vedere, le giovanili di Juventus e Varese. Il suo allenatore di categoria, Mario Pedrale, già lo conosceva bene. Anzi, era sbocciato sin troppo tardi quel giovanotto. E forse con qualche giorno di troppo era arrivato alla prima squadra bianconera, aggregato al gruppo di Ercole Rabitti. Ma torniamo all’acquazzone. Perché sono altri due gli occhi che diventeranno fondamentali per la costruzione del ragazzo: quelli di Nils Liedholm. Ne ammira la semplicità, la completezza, la capacità o meglio la naturale predisposizione a uscire dal ruolo, di attaccante puro, trova che sia un giovane in grado di mantenere almeno cento promesse in colpo solo.
Dovendo la Juventus spedirlo da qualche parte per fargli fare le ossa, l’opzione Liedholm sembra la migliore, se non quella perfetta. In serie B, col Varese. Così Bettega scende un gradino. Ma per prendere la spinta perfetta al momento di tornare alla Juventus. Non deve soltanto scavallare la stagione: è programmato per fare un po’ di storia del calcio italiano, con i suoi colpi di testa, leggendario quello all’Inghilterra in tuffo, con i suoi precoci capelli bianchi, con la sua impossibile, quasi disumana, abilità nel controllo degli stati d’animo. Il Varese, nel quale giocavano anche Sogliano, Braida, Carmignani, Sogliano, Gorin, Morini, Dolci, Rimbano, tanti di questi legati al Milan futuro, tornò in serie A.
Lui anche, ma altrove. Un altro allenatore chiave, nel percorso di Bettega, sarà Bearzot (senza nulla togliere a coloro che lo hanno allenato e con lui hanno vinto alla Juventus, senza trovare spesso il feeling come Vycpalek o Parola). Il “vecio” se l’era goduto per anni. A lui chiedeva attacco e compostezza, lucidità e potenza, anzi soltanto a Bettega poteva permettersi di chiedere di rientrare come fanno gli attaccanti moderni. Bettega gli regalò il gol forse più moderno di quegli anni, quando duettando con Rossi, davanti alla difesa dell’Argentina che sarebbe di lì a poco diventata campione del mondo, e ricevendo un colpo di tacco, ci convinse che quella squadra prima poi avrebbe regalato delle emozioni indescrivibili.
Non si sa come, eppure era evidente che alcuni di quei ragazzi, di quegli azzurri, accrescevano il proprio valore giocando uno accanto all’altro, forse perché venivano quasi tutti dallo stesso club, forse perché quello squillo argentino era soltanto l’inizio, forse perché veramente Bearzot aveva una misteriosa marcia in più. Era così centrale Bettega, nei pensieri del ct, che quando lo avvertirono, il 24 maggio del 1982, che Bettega non ce l’avrebbe fatta per i Mondiali di Spagna, ebbe un sussulto. Bettega si era lesionato i legamenti contro l’Anderlecht in Coppa dei Campioni, a causa di una tremenda uscita del portiere belga Munaron. A novembre dell’anno prima però. Che volete farci, erano tempi diversi. In tutti i sensi. Quindi anche i tempi di recupero erano diversi. Per ricostruire un ginocchio non bastavano otto mesi.
Bettega era una specie di Falcao avanzato. Così Bearzot lo immaginava man mano che il ragazzo si allontanava dai suoi anni verdi, pur senza essere mai invecchiato (aveva 31 anni). Bettega è lo spirito, l’emblema dei suoi anni. Un punto di contatto tra il calcio dei “cannonieri” e la scioltezza dei movimenti dei centravanti impostati come lui, ma negli anni successivi. Una vita non facilissima la sua. Diciamo una vita serena come poteva esserlo la quotidianità di una famiglia delle periferie torinesi alla fine della guerra, che insegna a contentarsi di ciò che si ha, anche se non è molto. Suo padre assemblava elementi in carrozzeria, sua mamma faceva la maestra. Crescendo, forse perché venne fuori da un acquazzone, non fece altro che alternare sole e pioggia, gioie e dispiaceri.
Si potrebbe dire una vita “infestata” da prove da test, come se dovesse ogni volta dimostrare di essere all’altezza. Roberto era nato nel quartiere di Madonna di Campagna, a un passo dal cuore grigio e affascinante di una Torino ancora appesa ai suoi traumi, dove esattamente quattro mesi prima (il 27 agosto) si era suicidato Cesare Pavese. Il calcio era la salvezza, le scuole per imparare a stoppare la palla, la porta del paradiso, i colori della sua squadra, la Juventus, dove comincia a giocare a sette anni, la metafora dell’esistenza, lo yin e yang, il bianco e il nero.
Bettega vince tanto in Italia, sette scudetti, solo una Coppa Uefa in Europa (decisiva la sua rete nella sconfitta per 2-1 nel ritorno a Bilbao). Il 31 ottobre del ’71, nel 1-4 che la Juventus rifila al Milan a San Siro, Bettega mette a segno una doppietta. Non solo: il suo gol di tacco diventa uno slogan della perfezione, rara cosa a vedersi. E’ un gesto talmente elegante che le immagini televisive, mentre lui esegue, sembrano quasi prendere colore. Ma è un brutto autunno quello che si annuncia. A gennaio del ’72 entra in clinica. Pleurite. Ristagno della sofferenza della guerra? Altro calvario. Si ferma per mesi. Fa in tempo a brindare con i compagni per lo scudetto appena vinto in primavera, ma torna in campo soltanto il 24 settembre del ’72, a Bologna.
La Juve cambia, cambiano i suoi compagni di reparto, Anastasi, Haller, Altafini, Boninsegna. Il figlio dell’operaio è sempre lì, Penna Bianca non muta né di accento né di pensier. Negli anni conclusivi è meno conciliante, litiga spesso, storico un battibecco con Agnolin, come memorabile un duetto con Brera in tv. Sembra aver dimenticato gli insegnamenti di mamma Orsola, definita una gozzaniana, una signorina (signora) Felicita, tanta poesia e tante cose di poco conto, ma quanto importanti, come l’aroma del caffè di casa che si espande nel mattino con le finestre ancora chiuse perché a Madonna di Campagna il sole non è ancora spuntato.
Lascia idealmente la Juventus a Platini, prima però perde con lui la finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo. E’ l’ultima maglia bianconera. Va in Canada presso i Toronto Blizzard ma non è convinto nemmeno lui. Durante un breve ritorno a casa ha un’incidente stradale che lo costringe a qualche giorno di rianimazione. Amarissima America. La sua carriera da dirigente è stata un luci e ombre, dentro e fuori. Meglio ricordarlo lì, a saltare più in alto di tutti, come un principe del pallone con le molle ai piedi. E negli occhi la quiete di una madonna di campagna.
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