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Lo scivolo verso la pensione più facile per le grandi aziende

ROMA – Andare in pensione cinque anni prima: di vecchiaia a 62 anni con almeno 20 anni di contributi o anticipata con 38 anni di versamenti. Nel 2021 potrebbe toccare a 6 mila lavoratori di aziende con almeno 250 dipendenti. Tanti potrebbero beneficiare – secondo i calcoli della Ragioneria – del nuovo contratto di espansione, rivisto e corretto rispetto alla versione del 2019 mai davvero applicata.

Un emendamento alla legge di Bilancio – a prima firma Garavaglia (Lega), ma votato all'unanimità – rende lo strumento più appetibile. Le aziende coinvolte sono intanto di più: da quelle con almeno 1.000 addetti si scende a 250.

"Una proposta che come sindacati abbiamo spinto molto", dice Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil. "Si tratta di uno strumento forte per chi esce, per chi entra e chi resta: i più anziani sono accompagnati alla pensione, alcuni giovani potranno essere assunti e gli altri non perdere il posto quando il divieto di licenziare finirà".

Ed è proprio in quest'ottica che va inquadrata la nuova misura. Le aziende sopra i 250 dipendenti sono lo 0,1% del totale (3.600), ma il 21% degli addetti (3,3 milioni), il 32% del valore aggiunto (750 miliardi) e il 43% degli investimenti fissi (39 miliardi), secondo gli ultimi dati Istat relativi al 2017.

Una bella fetta della produzione italiana, non esaustiva certo di quante imprese – specie piccole e medie – si troveranno a dover ristrutturare dal primo aprile 2021, all'indomani della ripresa dei licenziamenti.

Lo strumento però c'è, sebbene sperimentale e allungato al solo 2021. L'azienda interessata fa un piano di riorganizzazione o reindustrializzazione per potenziare lo sviluppo tecnologico e aggiornare le competenze dei lavoratori. Il contratto viene firmato al ministero del Lavoro, che verifica il progetto, e in accordo con i sindacati. Può tagliare fino al 30% delle ore lavorate – coperte dalla solidarietà – e prevedere nuove assunzioni.

Oppure usufruire dello scivolo e anticipare la pensione ai lavoratori – con il loro consenso scritto – che si trovano a massimo cinque anni dal traguardo, erogando loro un'indennità mensile pari alla pensione (calcolata da Inps) che avrebbero al momento dell'uscita concordata con l'azienda.

Chi anticipa di 60 mesi l'uscita di vecchiaia perde cinque anni di contributi e avrà in futuro un assegno più basso. Ma smetterà di lavorare a 62 anni e quando ne avrà 67 la pensione un po' comunque salirà per l'applicazione del coefficiente legato all'età.

Chi invece abbassa il criterio contributivo per l'uscita anticipata a prescindere dall'età – 38 anni anziché 43 – potrà contare sul versamento da parte del datore di lavoro dei contributi figurativi di quei cinque anni, senza i quali poi non può andare in pensione.

Qual è in tutto questo il vantaggio per l'azienda? All'indennità mensile che paga per cinque anni al dipendente potrà scontare l'importo dei primi due anni di Naspi, il sussidio di disoccupazione.

Se poi si tratta di un'azienda grande, sopra i mille dipendenti, allora lo sconto sale a tre anni di Naspi. Ma deve impegnarsi a fare un'assunzione ogni tre uscite. Negli altri casi non c'è un vincolo esplicito tra esodi e assunzioni, sebbene lo scambio sia parte integrante di questo contratto che si chiama appunto di espansione.

Il governo ha stanziato 88 milioni per il 2021, 100 milioni per il 2022, poi 33 milioni per il 2023 e 3,7 milioni per il 2024.

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