Pierino Fanna è uno dei pochissimi giocatori ad avere vinto lo scudetto con tre maglie differenti. Dopo avere giocato e vinto nella Juve di Trapattoni, passò al Verona, dove festeggiò la vittoria del campionato nella stagione 1984/1985. Giocò poi quattro stagioni all'Inter, partecipando alla conquista dello scudetto dei record, tornando in gialloblù a fine carriera.
Chi vincerà questa sera al Bentegodi fra Verona e Inter?
"Sarò sincero, non ne ho idea. Non seguo più calcio e non mi manca. Guardo solo semifinali e finali di Champions, competizione di cui apprezzo tecnica, tattica e agonismo. Ma la Serie A m'interessa poco. Mi è capitato di vedere qualche partita dell'Atalanta, agli inizi di Gasperini, che è un amico. Lo conosco dai tempi in cui io giocavo nei giovanissimi del Verona, lui della Juve. Ora non siamo più giovanissimi per niente".
Da quanto tempo non segue più il calcio?
"Da quando è nato mio primo nipote Tommaso, quattro anni fa. Ho deciso di fare il nonno a tempo pieno senza distrazioni. Mia figlia vive a Roma. Una settimana al mese la raggiungo per tenere i bambini. E anche mio figlio, che vive qui vicino a me, ha dei bambini".
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di
Franco Vanni
Dove vive?
"Mi sono fermato a vivere a Verona dal 1989, è casa mia. Io sono friulano di un paesino Moimacco, vicino a Cividale".
Cosa fa tutto il giorno?
"Faccio il nonno a tempo pieno. Il tempo vola. Pensavo che invecchiando rallentasse invece è vero il contrario. Proprio in questo momento, sto andando in piazza Bra qui a Verona con uno dei miei nipotini. Ogni tanto gioco nella squadra delle vecchie glorie dell'ASD Ex Calciatori Hellas Verona Onlus".
Chi c'è in squadra con lei?
"Ci sono Venturini, Terracciano, Chicco Guidotti, figlio del presidente dello scudetto. Quando può, viene Damiano Tommasi, che è parecchio più giovane. Siamo in sette o otto. In panchina c'è ancora Osvaldo Bagnoli, ha 85 anni. Il mister dello scudetto. Vive qui da 37 anni, a parte le parentesi a Genova e Milano, che era la sua città. Come me, ha scelto Verona".
Giocate spesso?
"Sempre meno. Facciamo qualche partitina molto tranquilla e tanti pranzi. Se gli avversari sono troppo giovani, io non gioco, saluto e basta. Sono riuscito a non infortunarmi seriamente per tutta la carriera, non voglio farmi male adesso che ho 62 anni".
Lei si chiama Pierino, Piero o Pietro? Sulle figurine degli anni Ottanta si leggeva un po' di tutto.
"Mi chiamo Pierino. Non so perché sulle figurine ci fosse Pietro. Nella Juve con me giocavano Pietro Anastasi e Pietro Paolo Virdis. Forse, con tutti quei Pietro, la Panini si confuse. Ma sono Pierino, per gli amici e anche per l'anagrafe".
Lei si ritirò prima di avere compiuto 35 anni, evitandosi la trafila delle squadre minori a fine carriera.
"Gli ultimi anni a Verona furono tosti, su e giù fra la Serie B e la A, fra il '90 e il '93. L'idea di scendere di categoria non mi piaceva. Non amavo le retrocessioni, dopo averne provata una. Oggi i giocatori vanno avanti di più. Noi a 30 anni eravamo considerati vecchi".
Come mai ai suoi tempi le carriere erano più corte?
"La preparazione atletica era rudimentale, si andava per esperimenti. Eravamo cavie per l'allenamento in palestra. Se sbagliavi un test di velocità eri fuori. Le eccezioni c'erano, ma rare. Sacchi ad esempio dei test atletici se ne fregava, Carlo Ancelotti giocava anche se non correva molto veloce, visti i problemi alle ginocchia. Ed era un campione. Oggi i club hanno imparato a curare i propri giocatori, di modo che a fine carriera possano insegnare ai giovani".
Lei è uno dei pochissimi calciatori ad avere conquistato lo scudetto con tre squadre diverse, compreso il Verona. Può di nuovo una provinciale vincere uno scudetto?
"Non credo proprio. L'Atalanta ha alzato molto il livello, ci è arrivata vicina, ma si è fermata a un passo. Il divario economico con le grandi è difficile da colmare".
In Premier League è successo al Leicester.
"Una scheggia impazzita può capitare, ma non devi sbagliare nulla e devi puntare sulle altrui disgrazie sportive. Se i club più ricchi e attrezzati fanno il loro massimo, non c'è storia".
Lei lasciò il Verona per l'Inter l'anno dopo lo scudetto. Si pentì della scelta?
"Da bambino ero interista, era il mio sogno. Arrivare dal mio paesino in Friuli a San Siro era una cosa enorme. L'Inter mi seguiva da tempo. Col senno di poi è facile dire che ho sbagliato, ma la vita non funziona così. Era giusto andare. Mi voleva anche Ferlaino, nel Napoli di Maradona, ma scelsi i nerazzurri. Alla Pinetina ritrovai Trapattoni, con cui ero in conflitto dai tempi della Juve, pur rispettandoci molto. Mi toglieva dal campo, quando eravamo in vantaggio, per inserire un difensore o un centrocampista".
Con Bagnoli, fu un'altra storia.
"Mi capiva anche dal punto di vista umano. Avevo bisogno della sua fiducia, di sentirmi apprezzato. Per incidere, devi giocare. Ero un'ala, davo sempre il massimo. Entravo nei suoi schemi. Ragionava per ruoli con grande chiarezza. Qui a Verona sono rinato. Vedo l'Arena, dove festeggiammo con 40mila tifosi, e mi emoziono. Grazie al Verona tornai in Nazionale, dopo avere saltato Messico '86 per un anno difficile all'Inter, con Castagner e Corso in panchina. A Verona sono stato premiato per tre anni migliore ala del campionato".
A Verona lei provò anche ad allenare. Prima le giovanili, poi la prima squadra come assistente di Prandelli.
"Ho fatto cinque anni di settore giovanile, poi due con Prandelli, fra Verona e Venezia. Avevo tutti i patentini da allenatore, ma presto ho mollato tutto. Mi piaceva troppo la libertà. Non ho sperperato negli anni, quindi posso vivere bene. Mi hanno proposto diverse volte di fare l'allenatore, ma ho sempre rifiutato. Forse avrei dovuto continuare ad allenare i giovani, che sono la mia passione. L'ho vissuto da padre e da nonno. Ma il mestiere dell'allenatore negli anni è molto cambiato. Basta guardare come stanno in panchina oggi. Stanno in piedi e gridano tutta la partita".
Secondo lei, come mai lo fanno?
"Non lo so, mi stupisce ogni volta. Se uno prepara bene le partite, non ha senso poi sbracciarsi per 90 minuti. La partita dovrebbe essere il risultato di quello che si è provato in allenamento. Per mia esperienza, meno l'allenatore parlava e gesticolava, meglio giocavamo. Bagnoli parlava pochissimo, perché sapevamo già cosa fare".
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