“MI vaccinerò e ritengo che debba essere obbligatorio. Mi rendo conto che questo non è possibile, per quel che è scritto nella nostra costituzione. Propongo allora che chi rifiuta il vaccino diventi un eremita sociale. Che non gli venga permesso di andare a lavorare o di entrare al supermercato”. Mario Riccio è il medico che aiutò Piergiorgio Welby, malato di Sla, a morire nel 2006. Ma è anche primario di anestesia e rianimazione all’ospedale di Casalmaggiore, in provincia di Cremona. Il Covid lo sta vivendo in prima linea.
Perché pensa che la vaccinazione debba essere obbligatoria o quasi?
“Perché se non raggiungiamo il 70% circa di immunizzati il virus continuerà a circolare, e da questa pandemia non riusciremo a venire fuori. Credo che vaccinarsi sia come pagare le tasse. Se vivo in un consesso umano, devo accettarne le regole. Così come non è etico evadere e poi pretendere strade, scuole e ospedali, chi vuole continuare a lavorare o vivere in mezzo agli altri è giusto che si vaccini. Per alcuni medici, sarebbe anche una redenzione dai messaggi sbagliati che hanno lanciato”.
A chi si riferisce?
“Chi ha detto che il virus era morto ha delle responsabilità. Le sue parole hanno determinato comportamenti imprudenti e nuovi contagi. Mi sorprendo che l’ordine dei medici non abbia preso provvedimenti. Dare messaggi sbagliati sulla pandemia è un comportamento deontologicamente scorretto. La comunicazione è parte importante del nostro mestiere”.
Durante la prima ondata ci raccontò che i respiratori non bastavano per tutti i pazienti e a volte siete stati costretti a scegliere. E’ andata così anche stavolta?
“Abbiamo applicato il triage etico, secondo le linee guida della nostra società, la Siaarti, condivise con la Fnomceo. A differenza della primavera, abbiamo imparato a capire in anticipo chi non ce la farà. Sono i pazienti anziani con due o più malattie oltre al Covid che non sono mantenute in condizioni stabili. Persone con queste caratteristiche non vengono nemmeno avviate a un percorso di terapia intensiva, oggi. Non si tratta di scegliere chi far vivere o morire in base all’età, come ha suggerito Habermas in un’intervista a Repubblica ad aprile. Si tratta di rendersi conto che il medico non può fare tutto. E che non è giusto che tutto venga fatto. Le risorse dei sistemi sanitari sono per forza di cose limitate e vanno allocate nel modo migliore. Anche i parenti dei malati se ne sono resi conto con il tempo. Abbiamo capito in che razza di situazione siamo finiti. Ci troviamo in una crisi epocale, di fronte a un virus che può essere spietato. Affrontare questa realtà facilita il dialogo con noi medici”.
Ma i sistemi sanitari hanno fatto tutto il possibile?
“Non direi. Durante la prima ondata le regioni più colpite sono state lasciate sole. Sarebbe stato necessario capire che un medico o un infermiere di rianimazione in queste circostanze sono un bene prezioso. Direi perfino un bene comune per la società. Il personale che non era chiamato ad affrontare il Covid al sud avrebbe dovuto spostarsi e aiutare i colleghi del nord. Così non è stato, perché il nostro è un sistema diviso per regioni. L’effetto è stato che abbiamo visto i pazienti morire senza assistenza. In Lombardia le case di cura medio piccole, quelle senza pronto soccorso, avrebbero potuto mettere a disposizione dell’emergenza il personale delle loro sale operatorie. Neanche questo è avvenuto. Né sta avvenendo ora, con la seconda ondata”.
Che differenza trova fra la primavera e l’oggi?
"Che oggi sarebbe anche impossibile chiedere aiuto agli altri. Siamo colpiti tutti, al nord come al sud. La Germania a primavera ci offrì un piatto di lenticchie, prendendo in cura una settantina di pazienti. A parte il fatto che a viaggiare dovrebbero essere i medici, non i pazienti in condizioni gravi, oggi la Germania ha problemi forse ancor più grandi dei nostri. E se in crisi si ritrova il paese che ha il più alto numero di terapie intensive in proporzione agli abitanti, vuol dire che la situazione è davvero grave. A Cremona in primavera atterrò un Dc con a bordo un ospedale da campo e del personale dei samaritani provenienti dagli Stati Uniti. Arrivarono medici da Cuba e dall’Albania. Oggi nessuno ha la possibilità di aiutare gli altri. Solo le case di cura lombarde continuano a fare i loro interventi”.
Tra la prima e la seconda ondata non abbiamo fatto progressi?
"Qualcosa sì nelle cure. Anche i numeri sono stati migliori. Prima del Covid in Lombardia avevamo 700 posti in terapia intensiva, che nella prima ondata erano diventati 1.400. Stavolta ci siamo fermati a 750-800. Ma resta il problema della sanità lombarda, che ha come fulcro gli ospedali, mentre il Covid è una malattia che deve essere curata soprattutto a casa. E c’è la questione insormontabile della carenza di personale. Si tratta di errori di programmazione che risalgono al passato. Ma oggi, se non ci sono anestesisti sul mercato, è inutile fare continuamente concorsi. E’ solo uno spreco di tempo e denaro”.
Le risorse col tempo non sono aumentate?
"Sì, abbiamo i famosi respiratori acquistati da Arcuri. Ma è inutile che lui ripeta che abbiamo 7.500 apparecchi. Medici e infermieri non si acquistano e un paziente al respiratore non si attacca da solo. Accanto agli strumenti servono i monitor. E accanto ai monitor serve qualcuno che li sappia leggere e che sappia assistere un paziente di area critica. Altrimenti avremo un’automobile senza cruscotto e senza pilota. Già stiamo tirando molto la corda. Invece di un medico ogni quattro pazienti e un infermiere ogni due, in rianimazione, oggi con il Covid accettiamo che ci sia un medico ogni sei e un infermiere ogni tre pazienti. Si parla tanto dei respiratori come se fossero un feticcio, un mantra. Ma le macchine sono solo una parte della soluzione. L’altra parte restano le persone”.
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