QUEST’anno Babbo Natale dovrà entrare nelle nostre case protetto da una mascherina? Dovrà usare i guanti e cambiarli dopo ogni visita? O sarebbe più prudente per lui lasciare i suoi doni sul pianerottolo? Sono alcune delle domande, amaramente ironiche, che si pone Gary Wormser, direttore della divisione di malattie infettive del New York Medical College, all’approssimarsi di un Natale che quest’anno sarà certamente più triste in tutto il mondo, sia per l’impossibilità per molti di ricongiungersi con i propri cari sia per i lutti che la pandemia ci ha inflitto. Ma per molti il Natale è comunque una festa che, oltre alla nostalgia per gli affetti perduti, ha da sempre un sapore agrodolce.
di
GIUSEPPE LAVENIA
La malinconia dell’inverno, che colpisce molte persone e in misura maggiore il sesso femminile, ha le sue basi fisiologiche nell’accorciamento delle giornate, che attraverso la diminuzione dell’esposizione alla luce causa un abbassamento dell’umore e un aumento del sonno e in particolare dell’appetito: la tradizione natalizia, che celebra il solstizio d’inverno e quindi la rinascita del ciclo solare con il progressivo allungamento delle giornate, con i suoi banchetti risponde anche a queste mutate esigenze fisiologiche. Il Natale è oltretutto una festa che si trascorre in famiglia, e questo rinforza i legami di tenerezza ma può anche riportare allo scoperto tensioni irrisolte nelle relazioni. Di questo fanno più spesso le spese proprio le donne, che per forza di cose rappresentano, nella maggior parte delle famiglie e attraverso le generazioni, il perno attorno al quale ruota la celebrazione natalizia, sia per la loro centralità affettiva che per l’organizzazione di pranzi e cene, che quasi invariabilmente ricadono sulle loro spalle.
Le limitazioni alla mobilità, decise per arginare i contagi, ci impongono dunque di confrontarci con un Natale diverso, più triste ma forse in parte più libero da quegli impegni che, a volte, ne offuscano la dimensione spirituale: proprio quella che, indipendentemente dall’appartenenza a una fede specifica o dalla partecipazione attiva ai riti religiosi, può rappresentare una preziosa risorsa contro la malinconia.
di
Elisa Manacorda
Una ricerca su quasi cento pazienti depressi coordinata dallo psichiatra Domenico De Berardis, del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Teramo, ha dimostrato che la religiosità intrinseca, intesa come un senso di connessione spirituale con gli altri associato alla convinzione che la vita abbia un significato, potenzia il benessere, riduce la depressione e rende meno frequenti e pervasivi i sentimenti di sconforto e disperazione, probabilmente anche per un meccanismo fisiologico: lo psichiatra Bruno Paz Mosqueiro, dell’Università di Porto Alegre, ha osservato una maggiore concentrazione di BDNF (fattore neurotrofico cerebrale), una sostanza polipeptidica che favorisce la crescita, la plasticità e la sopravvivenza delle cellule nervose, nelle persone con maggiore religiosità intrinseca. Al contrario, le religiosità esteriorizzata al fine di ottenere sicurezza o approvazione sociale sembra associata a un minor senso di benessere personale, a un diminuito autocontrollo e a un aumento del rischio di depressione.
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