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Livatino, il giudice beato che faceva paura ai boss

AGI – Erano passate da poco le 8.30 quella mattina del 21 settembre 1990. Il giudice Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando è stato avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso.

Ucciso perché perseguiva le cosche

In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ucciso perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che é poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia". Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che una volta definì "martire della giustizia e indirettamente della fede", quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lanciò il suo anatema contro i mafiosi.

Quel mattino di 30 anni anni fa, il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino.

Oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminarlo

Rimane ancora oscuro il "vero" contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente della Prima Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.

Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la 'Tangentopoli siciliana' e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro "Il giudice ragazzino", titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. "Livatino e la sua storia – scrive Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un'intera società e la sua morte, più che essere un documento d'accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d'accusa contro il complessivo regime della corruzione".

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