«Noi l’avevamo già isolata tra fine settembre e l’inizio di ottobre», spiega Federico Giorgi, il genetista ricercatore dell’Università di Bologna, una delle “sentinelle” europee che sorvegliano la mutazione del Covid, parlando della variante inglese del virus.
Perché non è scattato l’allarme? Non vi hanno presi sul serio?
«Noi ricercatori dell’Alma Mater, in collaborazione con l’Università di Catanzaro, abbiamo scritto tutto in un articolo che è stato pubblicato. Avevamo notato la mutazione in 15 pazienti inglesi, ma non avevamo una validazione sperimentale».
Cosa avevate notato?
«Che esisteva una mutazione nell’interfaccia tra la proteina “spike” e l’altra proteina, “ace2”, vale a dire nel meccanismo con il quale il virus entra nelle cellule umane. La prima è il grimaldello con cui lo stesso virus si lega alla cellula attecchendo su “ace2” presente sulla superficie bronchiale. Se non si innescasse questo legame, il virus, fluttuante nel muco, verrebbe espulso con un colpo di tosse. Al contrario, grazie alla “spike” penetra nelle cellule”.
E voi ricercatori avevate fatto notare tutto ciò?
«Esattamente. Era una mutazione notata in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Australia. È senza dubbio quella più interessante e pericolosa tra le migliaia che notiamo nei circa 650 vetrini che ci giungono ogni giorno da tutto il mondo».
Quello che tutti vorrebbero sapere è se questa mutazione compromette l’efficacia del vaccino.
«I vaccini sono efficaci perché comunque hanno l’obbiettivo di disinnescare la proteina “spike”. La mutazione, se vogliamo rappresentarla con una metafora, ha semplicemente dato qualche colpo di lima alla chiave che permette al virus di entrare nelle cellule e in questo modo rende più agevole l’accesso, ma non cambia la forma della “spike”. Dunque il vaccino bloccherà la malattia. Per un anno, forse due, potremo stare tranquilli».
Vuol dire che poi bisognerà pensare a un altro vaccino?
«È probabile. Il virus rimarrà endemico perché per debellarlo del tutto bisognerebbe vaccinare il 100% della popolazione, ma credo che ci si fermerà intorno al 60%, percentuale che consente di rendere sporadica la malattia. Ma poi occorrerà sequenziare il virus, sorvegliarlo e adeguare i vaccini perché mutare è nella natura del virus stesso».
Non lo stiamo facendo?
«Lo fanno solo gli inglesi e in parte gli americani. I primi sono arrivati a 125mila sequenze, gli americani a 100mila, noi siamo fermi a 920 e il resto d’Europa anche meno. È grazie a questo lavoro che in Gran Bretagna hanno rilevato la mutazione».
Vuol dire che se eseguissimo tante sequenze del virus forse scopriremmo che il nuovo ceppo è già da tempo anche da noi?
«È probabile. I vaccini sono robusti e resistono alla mutazione, ma i test dovremmo continuamente aggiornarli altrimenti rischiamo di avere tanti falsi negativi. La sequenza è come l’albero genealogico del virus e ci permette di osservare i cambiamenti nel corredo genetico prendendo le contromisure. Ma anche di capire da dove viene quel tipo di variante e dunque isolare il Paese dove si è sviluppato».
Invece corriamo il rischio di accorgerci del nemico quando l’abbiamo già in casa?
«Faccio un esempio. Quando si svilupparono i primi focolai in Italia, si pensò che tutto fosse scaturito da un uomo che era giunto in Lombardia dalla Baviera. Se anziché una sola evidenza ne avessimo avute dieci, avremmo capito che era inutile bloccare i voli dalla Cina. Magari sarebbe stato più opportuno chiudere i contatti con la Baviera».
Quindi sequenziare il virus è l’obbiettivo più urgente?
«Dobbiamo allenarci a combattere calamità come questa. Il che equivale a trattare le mutazioni potenzialmente pericolose, quelle che crescono e si affermano, come fossero individui sospetti. Quella di cui stiamo parlando è una mutazione che è passata dallo 0,1% dei casi osservati a settembre al 10% medio di oggi».Original Article
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