Ci sono figure e gesti che sono entrati prepotentemente nel nostro immaginario. L’espressione “Lavarsene le mani”, significa disinteressarsi di qualcosa, ispirata alla condotta di Ponzio Pilato — il governatore romano della Giudea — davanti a Gesù Cristo nell’atto di giudicarlo, prendendo le distanze dalle conseguenze inevitabili. Ma è davvero andata così? Siamo certi di aver interpretato bene i testi, fugando ogni perplessità?
Proprio il dubbio è il grande protagonista de “L’inganno di Pilato” (Algra editore, 303 pagine, 15 euro), il nuovo romanzo storico di Domenico Seminerio. L’autore di Caltagirone (1944) — già noto per “Senza re, né regno”, “Il manoscritto di Shakespeare” e “Il cammello e la corda”, tutti editi da Sellerio — apre le danze con un felice espediente metanarrativo.
Nel paese di Pizzogrande, «sulla cima cretosa nel bel mezzo della Sicilia» si è appena insediato un nuovo parroco, Salvatore Salvato, che a Montesella, dove aveva esercitato in precedenza, aveva ceduto al richiamo della carne con la sua giovane perpetua, tanto da dover cambiare sede su pressione del vescovo e delle calunnie che lo avevano sospinto via. Un uomo di fede, non un santo in terra, a Pizzogrande conosce il bibliotecario, Rocco Bruno. Nonostante questi si professi ateo, i due si confrontano senza pregiudizi partendo proprio da quel «gesto del lavarsi le mani che era diventato proverbiale» e quando il bibliotecario si ammalerà gravemente, al parroco giungerà il manoscritto inedito di Rocco Bruno che, dubitando sulla versione dei Vangeli, affronta il mistero di Ponzio Pilato e della crocifissione di «Jeshua, il figlio del falegname».
Il Ponzio Pilato di Seminario — filtrato dal manoscritto del bibliotecario — è un prefetto, rivestiva dunque una carica militare, era uomo di solidi principi, insediatosi nel proprio ruolo di governo per volere dell’imperatore Tiberio che esigeva un rappresentante ligio al dovere, in una terra lontana e piena di insidie per il potere secolare e spirituale del princeps. Seminerio dipinge Pilato incerto sul futuro cui va incontro, riuscendo a trasmettere la sensazione di pericolo in agguato per tutti in un impero. Bastava un cenno, una risposta sgarbata e l’imperatore poteva disporre della loro vita liberamente, e se non bastasse, l’incombente presenza di Caligola, futuro imperatore eccentrico e dedito alle passioni della carne, aumentano i timori del prefetto; e così, giunto sull’isola di Capri per incontrare «il divino Tiberio Cesare» e riferire sulla condanna a morte di Jeshua il nazareno, dopo l’iniziale perplessità, anche Ponzio Pilato cederà ai costumi molto libertini dell’isola, denudandosi e giacendo con i servi. Una condotta imposta e richiesta da Tiberio, facendo dell’isola un tripudio di bellezza e vizi, un’esaltazione pantagruelica che inevitabilmente diventa un memento mori, rivelandosi un eden oscuro e perturbante, tripudio dei sensi che richiama la corruzione della carne.
Il romanzo di Seminerio è una attenta ricostruzione storica di una cesura culturale, chiedendo al lettore d’armarsi di un ragionevole dubbio. Tiberio — imperatore moribondo e attorniato da una corte licenziosa — esige di sapere come andarono le cose: perché Pilato si lavò le mani in pubblico? Sono fondati i dubbi sulla sua condotta? Pagina dopo pagina, l’autore trasmette tutte le incertezze del prefetto davanti a Jeshua — «che aveva poco più di trent’anni, era scuro d’occhi e di capelli, con la carnagione olivastra e la barba che gli incorniciava il viso» — in bilico fra i rimorsi di coscienza e il timore per il potere espresso da Tiberio: insomma, «che fine aveva fatto Jeshua?».
Seminerio costruisce un grande romanzo storico e accetta una sfida «senza alcun intento polemico o di velata blasfemia, sebbene il tentativo di scrutare con gli occhi della ragione i misteri della fede, rovesciando in qualche modo l’affermazione di Sant’Agostino: non “credo ut intellegam”, ma “intellego ut credam”».
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